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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 70. BERLIN FILM FESTIVAL I I migliori film delle sezioni Encounters, Berlinale Special, Panorama e Forum .. I BY GIOVANNI OTTONE I 2020

70. Berlinale 2020

 

I migliori film delle sezioni Encounters, Berlinale Special, Panorama e Forum

 

by Giovanni Ottone

The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov

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I migliori film delle sezioni Encounters, Berlinale Special, Panorama e Forum

(w. p.= world première; i. p.= international première; e. p.= european première)
(1° = first film; 2° = second film; ….)

Section Encounters

Synonymes Nadav Lapid

“Never Rarely Sometimes Always” di Eliza Hiltman

 

Never Rarely Sometimes Always (USA, i. p., 2020, 3° film, W. P. at SUNDANCE F. F. 2020, U.S. Dramatic Special Jury Award: Neo-Realism), 101’, di Eliza Hittman.

Racconta una storia drammatica di formazione, dedicata al tema dell’aborto e ai gravi ostacoli per interrompere la gravidanza. Lo scenario è quello degli USA di oggi, una società frammentata e poco solidale, condizionata dal conservatorismo politico e ideologico. È un’opera di impronta realista, caratterizzata da un approccio osservazionale ricco di qualità documentaristica, che tuttavia inserisce un interessante studio di caratteri in un contesto eccessivamente programmatico e viziato da alcuni stereotipi. La quarantenne Eliza Hittman, formatasi presso la School of Film / Video at California Institute of the Arts e beniamina del Sundance Film Festival, dove ha presentato con successo tutti i suoi film, è interessata a rappresentare i contradditori itinerari esistenziali degli adolescenti, con particolare riferimenti alle loro esperienze di socializzazione e alla loro incerta sessualità.

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Nei suoi film precedenti, Il Felt Like Love (2013) e il più radicale Beach Rats (2015), ha mostrato originalità di approccio alle insicurezze dell’età postpuberale e sensibilità documentaristica che incontra il minimalismo drammatico con spunti visivi poetici. Never Rarely Sometimes Always, al contrario, è indubbiamente differente perché si caratterizza come un apologo morale, malinconico e intenso. La definizione in tal senso deriva sia dalla maggiore contestualizzazione politica, sociale e culturale con l’epoca di Trump, che vede la prevalenza di valori tradizionali e reazionari e un forte arretramento in tema di diritti civili e delle donne, sia dalla lucida rappresentazione della difficoltà e della sofferenza nell’affermazione della libertà di scelta come donna rispetto al proprio corpo e al proprio futuro. Peraltro, questo road movie atipico, che configura una breve odissea esistenziale, non è un pamphlet militante femminista anche perché Eliza Hittman pone a freno la deriva didascalica e melodrammatica facendo appello a una chiara vocazione antispettacolare. La forza e l’energia del film risiede nella centralità del ritratto intimo di una giovane donna, di cui non si conosce né interessa il passato, nel momento in cui deve affrontare una prova terribile senza negare sé stessa. Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria Sales: Universal Pictures International

Section Encounter

Isabella, (Argentina, w. p., 2020, 6° film) 80’, di Matías Piñeiro.

Un attraente ritratto di donne, ricco di sfumature, che è anche un atipico racconto morale. Un delizioso cinema della parola in una commedia che racconta la competizione tra due attrici trentenni, intrecciando teatro e vita reale. Nel suo quinto film dedicato a Shakespeare, Piñeiro sviluppa un gioco poetico, ironico e circolare, tra enigmi, bugie, scontri effimeri, relazioni controverse, colpi di scena e piroette. Matías Piñeiro si colloca all’interno di una nuova tendenza del cinema argentino, emersa a partire dal 2007. Si tratta di giovani registi che mettono in scena storie con un complesso intreccio di personaggi che vivono una falsa drammaticità. I loro film presentano una chiara caratterizzazione teatrale e dialoghi di largo respiro, ma criptici e spesso surreali.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Isabelle", Matias Pineiro

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In sostanza risultano coinvolgenti e irritanti al tempo stesso, a causa dell’evidente esercizio affabulatorio estetizzante, ricco di riferimenti culturali e / o letterari. Per altro Piñeiro si differenzia per una maggior raffinatezza di sguardo indulgente sull’inaffidabilità del tempo, di scrittura e di messa in scena. Il suo originale cinema della parola si pone in sintonia con grandi maestri quali Éric Rohmer, Alain Resnais, Jacques Rivette e Manoel De Oliveira e rielabora creativamente testi e spunti delle opere letterarie di Jorge Luis Borges e di Domingo Faustino Sarmiento, dei feuilletons francesi ottocenteschi e di alcune commedie di Shakespeare. Isabella, quinto film di Piñeiro dedicato appunto ai ruoli femminili nelle opere di Shakespeare, offre, come i precedenti, il cortometraggio Rosalinda (2011) e i lungometraggi Viola (2012) La princesa de Francia (2014) e Hermia & Helena (2016), uno scenario di confronti caratteriali, collaborazione e conflitto, invidia e gelosia, amori e disamori. Muriel e Luciana appartengono alla schiera dei personaggi dei film del regista argentino, in prevalenza donne, ma anche uomini, ventenni e trentenni, tutti appassionati di teatro, i cui percorsi esistenziali si intrecciano, svolgendosi tra la vita reale e i lavori precari, in ambito artistico o meno, e la recitazione. Sono due donne, una più giovane, indifferente, volubile e impertinente, l’altra più adulta e apparentemente consapevole, ma fortemente caparbia, della cui vita precedente si sa ben poco, se non la loro grande passione per il teatro. Molto diverse e ambigue caratterialmente e nei loro comportamenti, sono legate, in qualche modo, dal riferimento allo stesso uomo: Miguel, fratello di Muriel e amante di Luciana. Piñeiro sembra ispirarsi molto vagamente al celeberrimo All About Eve (1950), di Joseph L. Mankiewicz, quantunque il suo orizzonte non sia affatto il dramma classico, ma l’esistenzialismo incerto e controverso dei ventenni e trentenni di oggi, reso con spunti ironici e poetici. Isabella è apparentemente irregolare e casuale nella sua narrazione non lineare, che si sviluppa su un arco temporale indefinito, forse due o tre anni, ma è composto invece con intelligente malizia. Si dipana attraverso una teoria di episodi, rituali e associazioni romantiche libere. Gli avvenimenti si susseguono e procedono con un’articolazione irregolare e / o ripetitiva, con un ritmo circolare. Ne risulta un gioco fresco, in cui i personaggi si muovono vagando senza meta e interagiscono, tra verità, enigmi e bugie, pettegolezzi, scontri effimeri, relazioni controverse e dualismi. I dialoghi, a teatro o in strada, mescolano spezzoni del testo di Shakespeare, discussioni sulla vita di tutti i giorni e la reiterazione ossessiva di frasi e sentenze, configurando un labirinto dialettico e un equilibrio instabile, ma delicato, tra commedia e possibile tragedia. È un romanzo visivo che descrive desideri e impulsi, ricco di colpi di scena lasciati in sospeso, trame parallele e piroette. La tempistica drammatica è del tutto originale, elaborata e semplice al tempo stesso, ma per nulla narcisistica o pedagogica. Special Mention of The Encounters Jury Production / Sales: Trapecio Cine (Argentina)

Synonymes Nadav Lapid

“The Metamophosis of Birds” di Catarina Vasconcelos

 

A metamorfose dos pássaros (The Metamophosis of Birds) (Portogallo, w. p., 2020, 1° film), 101’, di Catarina Vasconcelos.

Un piccolo capolavoro, tra documentario e finzione, ispirato da Jean Cocteau, Agnès Varda, Manoel de Oliiveira e Maya Deren. Un sorprendente ed emozionante video - diario che indaga la famiglia della regista, combinando ricordi e invenzione poetica, felicità e dolore, intima elaborazione del lutto e meditazioni oniriche. Un affascinante collage di immagini, musica e brani letterari, con riferimenti anche alla storia del Portogallo dalla metà del XX secolo a oggi. Catarina Vasconcelos ha voluto raccontare la storia di Triz, la nonna paterna che non ha mai conosciuto e di cui suo padre Jacinto e i suoi zii parlavano poco. I suoi nonni, Beatriz ed Enrique, si incontrano, si innamorano e si sposano nel giorno in cui la donna compie 21 anni. Henrique, essendo ufficiale di marina, si assentava per lunghi periodi, che trascorreva in mare a bordo delle navi su cui era imbarcato. Beatriz che amava la verticalità degli alberi del giardino di casa, si è presa cura dei loro sei figli.

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Un giorno all’improvviso la donna muore. Jacinto, il figlio maggiore, padre di Catarina, fin dall’infanzia sognava di trasformarsi in un uccello. Sua moglie, la madre di Catarina, muore quando la giovane ha l’età di 17 anni. La perdita delle rispettive madri ha portato padre e figlia, Jacinto e Catarina, a una maggiore approssimazione. Da questo nodo esistenziale è nata la volontà di girare il film, che è un progetto ibrido, tra documentario e finzione, frutto di un intenso lavoro di scrittura. Ne è derivata un’opera che, secondo la regista, assume una funzione catartica, fondendo ricerca, osservazione e processo e colmando i vuoti della parola con l’invenzione e le lacune della memoria dell’infanzia e della giovinezza attraverso la finzione. La struttura del film è sofisticata e affascinante: è un collage di immagini, musica e brani letterari, diviso in due parti. La prima si concentra su Triz ed è girata in 16mm per sottolineare che è morta nel 1984 in epoca pre digitale. La scelta di non utilizzare pellicole amatoriali familiari è deliberata e funzionale a riservarsi la libertà di ricreare le immagini. La seconda, in digitale, inizia quando la nonna muore e propone un’intima elaborazione del lutto attraverso la relazione tra padre e figlia e una suggestiva meditazione visiva sulla metamorfosi. In effetti la rappresentazione della madre morta che si trasforma in albero, mentre i figli diventano uccelli rimanda alla mitologia classica e a quella nordica, ma viene svincolata da qualsiasi implicazione tragica, suggerendo invece le equazioni albero - protezione e uccello - libertà. Catarina Vasconcelos dichiara di essere stata ispirata da Jean Cocteau e da registi del passato, quali la francese Agnès Varda, il maestro portoghese Manoel de Oliveira e la statunitense, di origine ucraina, Maya Deren, nonché dalle nature morte della pittrice ispano - portoghese Josefa de Óbidos (1630 – 1684). FIPRESCI Award: Best Film for Section Encounters Sales. Portugal Film

Sluzobnici (Servants), (Slovacchia /Romania / Repubblica Ceca / Irlanda, w. p., 2020, 2° film), 80’, di Ivan Ostrochovsky. Un convincente dramma - thriller, teso e claustrofobico, in bianco e nero. Nei primi anni ’80, la Chiesa cattolica in Cecoslovacchia subisce le pressioni del regime comunista ed è divisa. Due amici studiano alla Facoltà di Teologia di Bratislava. Incerti tra vocazione e idealismo resistenziale e testimoni di episodi di opportunismo e di atti criminali, diventano vittime sia della polizia sia della gerarchia ecclesiastica. Un impressionante studio di caratteri e un eccellente cast. Ivan Ostrochovsky propone un approccio austero che ricorda il cinema di Bresson, marcato dalla scelta di girare in bianco e nero, con la magistrale fotografia molto contrastata curata da Juraj Chlpík, il format quadrangolare di ripresa e di proiezione “Academy ratio”, ovvero l’aspect – ratio 1,37 : 1, e l’editing secco e graffiante curato da Jan 1) Danhel, Martin Malo e Maros Slapeta, per sottolineare la drammaticità claustrofobica, e senza mediazioni possibili, del racconto.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Servants", Ivan Ostrochovsky

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Anche la solida e meticolosa messa in scena enfatizza l’atmosfera oppressiva con tonalità noir, sfruttando al meglio la rigida architettura del seminario e affidandosi quasi esclusivamente a piani e inquadrature con camera fissa, con una logica che ricorda la tecnica dei tableaux vivants e che tende a riprodurre efficacemente l’immaginario dell’epoca. La narrazione procede lentamente, con significative ellissi e senza episodi climax, rappresentando, con significativi dettagli, i dilemmi morali e pratici in cui si dibattono i personaggi principali e la manipolazione ideologica e il controllo comportamentale attuato da entrambe le istituzioni in gioco, lo stato comunista e la chiesa. Offre spazio a un dettagliato studio dei caratteri dei personaggi, interpretati da ottimi attori, ed evita largamente la deriva psicologista e didascalica. Sales: Loco Films (Francia)

Synonymes Nadav Lapid

“The Trouble With Being Born ” di Sandra Wollner

 

The Trouble With Being Born (Austria / Germania, w. p., 2020, 2° film ), 94’, di Sandra Wollner.

Un dramma audace e venato di pessimismo, che esplora il limite della finzione e dell’illusione. Propone una distopia fantascientifica in cui si sviluppa un surrogato della relazione parentale, caratterizzato da ambiguità affettiva e sessuale. È ambientato in un imprecisato futuro, d’estate, in campagna, da qualche parte nell’Europa centrale, non lontano da Vienna. La protagonista è una ragazzina di dieci anni, pallida e magra, silfide androgina e piccola lolita al tempo stesso. Elli (Lena Watson), con una mimica faciale ridotta, ma stranamente sensuale, abita in una grande villa ultramoderna insieme a Georg (Dominik Warta), un quarantenne che sembra essere un genitore molto amorevole. Trascorre le giornate in giardino tra i bagni in piscina ei giochi con una cavalletta. Di notte spesso piange sommessamente consolata dal padre.

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Ma vi é un particolare che lo spettatore percepisce ben presto: l’uomo non è suo padre ed Elli non è un essere umano, ma un androide programmato per evocare memorie di un presunto passato e per rispondere ai desideri del suo “proprietario”. Elli è un essere statico e ripetitivo: non possiede alcuna attività cerebrale o volontà. Tutto ciò che sembra pensare e che dice e ogni sua singola azione sono il risultato della programmazione portata a termine da Georg, l’uomo che l’androide ha imparato a chiamare “papà”, ma che non lo ha mai generato. L’atmosfera è straniante e, apparentemente, idilliaca. Georg tratta la bambina androide con condiscendenza e, con pigra cautela, non esita a spingere la loro relazione sul terreno di un’intimità fisica disturbante. L’incesto è suggerito con insistenza, ma mai mostrato. I due si trastullano, tra abbracci lascivi, memorie di giochi e alcuni nudi di Elli, che si spoglia di fronte al finto genitore per farsi ammirare. Poi si insinua un’incrinatura, tutta giocata su dettagli e su sensazioni indefinite. Una notte Georg è attratto da uno strano eco sonoro che proviene dall’esterno, esce dalla casa e si addentra in un bosco. Elli lo segue, ma si perde. Poi incontra un’altra famiglia, viene portata in un alloggio e considerata un maschio a cui viene dato il nome di Emil. E si abitua perfettamente a un nuovo ruolo frutto della fantasiae dei bisogni di altri committenti, rimanendo reclusa in un modesto appartamento. Georg la cerca vanamente. La trentasettenne austriaca Sandra Wollner costruisce una storia minimalista e angosciante, inquietante e brutale. Ma sceglie un registro narrativo antisensazionalista, occultando le metafore e le suggestioni tragiche in un quadro di malinconico lirismo. Sembra riferirsi alla filosofia esistenzialista del romeno, poi esule in Francia con lo stato di apolide, Emil Cioran (1911 - 1995), volta all’assurdo e a un pessimismo radicale e misantropo, seppure mitigato dall’ironia. Infatti il titolo del film è mutuato da quello di un saggio tardivo dello stesso Cioran: “De l'inconvénient d'être né” (1973). Presenta la vicenda essenzialmente secondo il presunto punto di vista di una macchina sui generis con sembianze umane, giocando sulla suggestione di una sua apparente sensibilità e coscienza. Quindi illude lo spettatore prospettando una rappresentazione similveridica dell’infanzia impossibilitata a svilupparsi e a progredire verso la l’età adulta. Al netto di alcuni aspetti confusi e contraddittori e di una certa meccanicità priva di ironia, il film risulta intrigante e stimolante.

Special Jury Award

Shirley, (USA, i. p., 2020, 4° film W. P. at SUNDANCE F. F. 2020, U.S. Dramatic Special Jury Award: Auteur Filmmaking), 106’, di Josephine Decker.

Il quarto lungometraggio di finzione della britannica, ma newyorkese d’adozione, Josephine Decker, è un ambizioso e contundente anti-biopic, percorso da una palese visione femminista: affascinante, ma anche contraddittorio e sottilmente manipolativo. È basato sull’omonimo romanzo di Susan Scarf Merrell, pubblicato nel 2014, che immagina un episodio cruciale nella vita della leggendaria scrittrice e giornalista californiana Shirley Jackson (1916 - 1965). Fu una geniale esponente della letteratura neogotica americana, autore di macabre opere con sofisticate venature horror, tra cui “The Lottery and Other Stories” (1949) e “The Haunting of Hill House” (1959), considerati scandalosi all’epoca e poi diventati cult. Ma indubbiamente fu anche una persona con una personalità borderline, intelligentissima, stravagante e tormentata da una psiconevrosi maniaco - depressiva e dall’agorafobia, al punto di morire prematuramente a soli 48 anni.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Shirley", Josephine Decker

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La vicenda mette a confronto due donne, accompagnando la loro relazione, inizialmente viziata da diffidenza e da prevaricazione dell’una sull’altra e poi, man mano modificata e rafforzata dall’emergere di affinità e di una comune intolleranza verso le stimmate patriarcali ancora presenti nella società americana dell’epoca. Fino allo stabilirsi di una sorta di simbiosi intima, intellettuale e fisica, che oscilla tra una sorta di rapporto madre - figlia e l’attrazione erotica. La vicenda, ambientata durante i primi anni ’50, inizia quando Fred Nemser (Logan Lerman), un giovane laureato, accetta l’invito a diventare assistente del cinquantenne Stanley Hyman (Michael Stuhlbarg), noto critico letterario e già illustre professore universitario presso il liberal arts college di Bennington. Fred e la giovane moglie, ancora studentessa, Rose (Odessa Young), che da poco ha saputo di essere incinta, si trasferiscono quindi nella cittadina del Vermont, in New England. E, secondo gli accordi presi, per cui, in cambio dell’aiuto di Fred, Stanley offre loro vitto e alloggio, accettano di essere ospiti, nel cottage dove Hyman vive con la moglie, la celebre scrittrice Shirley Jackson (Elisabeth Moss). Quest’ultima è una quarantenne piena di complessi e asociale, fragile e vendicativa al tempo stesso. E vive per scelta in uno stato di semi – reclusione: dorme durante il giorno, consuma alcolici in quantità durante le lunghe notti insonni, si rifiuta di alimentarsi e non si cura di tenere in ordine né la casa né il proprio aspetto fisico. Inoltre l’alternanza di eccitazione e di depressione si è aggravata da quando ha iniziato le ricerche per un nuovo romanzo, ispirato da un macabro fatto di cronaca, la misteriosa improvvisa scomparsa di una studentessa dello stesso college (nella realtà si tratta del romanzo “Hangsaman”, pubblicato da Jackson nel 1951). Rose, che pure ha letto con passione alcune delle opere della padrona di casa, è riluttante, e in parte sconcertata, anche perché si rende subito conto che quella tra Shirley e Stanley è una relazione complicata di amore - odio e teme che lei e Fred siano coinvolti nelle penose dispute familiari dei loro anfitrioni. Fred, al contrario, entra subito in sintonia con Stanley, che lo tratta con grande familiarità, e, con il passare dei giorni si dimostra non solo tollerante, ma anche complice rispetto alle chiacchierate avventure extraconiugali del vivace ed estroverso professore. Tra l’altro, questi comportamenti di Stanley sono uno dei motivi dei continui sospetti e delle periodiche crisi acute manifestate da Shirley. In attesa di iniziare il corso di studi, Rose trascorre le sue giornate in casa, rassettando il disordine, a stretto contatto con Shirley, che, inizialmente le dimostra tutta la propria spocchia e un sottile disprezzo. Poi, poco a poco, tra le due donne nasce un legame, frutto di conversazioni in cui Rose dimostra intelligenza e valore, attirando l’attenzione di Shirley. La loro relazione è complessa e palesa una dinamica fisica ed emotiva non scontata. Da un lato sono entrambe ambiziose e orgogliose ed entrano facilmente in conflitto anche per futili motivi, mentre dall’altro si sentono accomunate dalla crescente indifferenza dei mariti, solidali tra loro, e, soprattutto, da un interesse condiviso per il macabro e l’horror. Josephine Decker, anche attrice di film del genere mumblecore, artista, performer e musicista, propone un cinema creativo e sofisticato, concitato e sensuale, spesso ai limiti dello snobismo, in bilico tra l’immediatezza realistica, l’introspezione psicologica, le suggestioni misteriose e la provocazione colta femminista sul tema delle relazioni tra maschio e femmina. I suoi lungometraggi precedenti, Butter on the Latch (2013), Thou Wast Mild and Lovely (2014) e Madeline’s Madeline (2018) mostrano un disinvolto riferimento ai generi, affrontano con approccio libero e provocatorio i temi del disagio psichico, del desiderio e della seduzione nell’universo femminile e nelle relazioni tra essere e natura e tra vita reale ed esperienza artistica. Shirley propone un racconto immaginario che comunque fornisce molti elementi interpretativi rispetto alla tragica biografia e alle opere letterarie della vera Shirley Jackson. Per altro l’intenzione di Josephine Decker è ben altra e complessa: configurare sia il ritratto di una relazione tra due donne intima e ambigua, sia la rappresentazione dell’intesa femminile in opposizione e autonomia rispetto ai comportamenti patriarcali dei maschi che, anche in ambito borghese e intellettuale, confinano le donne nei loro ruoli tradizionali di madre e di moglie, sia un febbrile itinerario esistenziale tra realtà e suggestioni gotiche. La sceneggiatura di Sarah Gubbins (una nuova esperienza per la regista, abituata a scriversi i propri film) segue un percorso narrativo piuttosto convenzionale, pur presentando molti dialoghi brillanti. Peccato che a tratti emerga un intento programmatico troppo studiato e in parte didascalico nella caratterizzazione dei personaggi. È invece la messa in scena, ricca di sensibilità illustrativa, che contribuisce efficacemente, coadiuvata dall’eccellente fotografia di Sturla Brandth Grøvlen, a far emergere un’atmosfera opprimente e audace al tempo stesso. Compone con cura diversi piani e sfrutta al meglio la disposizione dei personaggi negli spazi spesso claustrofobici e le doti interpretative di Elisabeth Moss e di Odessa Young. Ne deriva che le due protagoniste acquistano progressivamente spessore e audacia, in un itinerario di anticonformismo, autonomia ed emancipazione rispetto ai loro ruoli sociali che suggella un legame forte: l’una, Shirley, nevrotica e ossessiva, l’altra, Rose, disposta a lasciarsi corteggiare e forse sedurre, ma, soprattutto, a convertire l’iniziale remissività in nuova coscienza di sé. Sales: Cornerstone Films (UK)

Section Berlinale Special

Synonymes Nadav Lapid

“Curveball” di Johannes Naber

 

Curveball (Germania, w. p., 2020, 4° film), 108’, di Johannes Naber

Un thriller politico ben riuscito, con le sembianze di una commedia drammatica, caratterizzato da una gustosa vena surreale e da uno humour farsesco caustico e intelligente. Basato su fatti reali (non noti al grande pubblico), rielaborati con alcune licenze finzionali, racconta una storia in cui una sequela aberrante di eventi innesca una ripercussione globale e la giustificazione della guerra in Iraq (o seconda guerra del Golfo), iniziata nel marzo 2003 con l'invasione dell'Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli USA. Arndt Wolf, esperto di armi biologiche e collaboratore del BND, i servizi segreti tedeschi, nel 1997 è stato impegnato in missioni dell’ONU di ispezione di siti in Iraq per cercare le prove di armi di distruzione di massa nascoste da Saddam Hussein.

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È un uomo privo di vera vita sociale, concentrato sul suo lavoro e ossessionato dal fatto di non aver potuto terminare la ricerca. Un giorno viene messo a confronto con Rafid Alwan, un sedicente ingegnere chimico fuggito dall’Iraq che afferma di aver lavorato nell’ambito del programma segreto di Saddam Hussein per la produzione di armi biologiche. È disposto a rivelare i dettagli del piano e la localizzazione dell’arsenale letale, ma, essendo terrorizzato per possibili rappresaglie, chiede in cambio protezione e un passaporto tedesco. Wolf è incaricato di condurre le indagini e, dopo lunghe conversazioni con Rafid, si convince della veridicità della notizia della produzione clandestina di antrace da parte di Saddam. Dopo averlo protetto e stipendiato per mesi, i tedeschi scoprono che Rafid è un ineffabile millantatore e un opportunista, un bugiardo che ha inventato fatti e prove inesistenti per ottenere l’asilo politico. Tuttavia, per ragioni diplomatiche e di prestigio nei confronti degli americani, i servizi segreti tedeschi non ammettono l’errore e non comunicano l’inganno ai Paesi alleati. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 la CIA insegue l’informatore Alwan, il cui nome in codice è “Curveball”, per catturarlo e per ottenere le prove che servono per dare una motivazione alla scelta della guerra contro Saddam. Riecheggia il lugubre commento di uno dei personaggi: “ la verità conta meno della giustizia”. Al centro del film vi la strana relazione “amicale” tra i due quarantenni, frutto di circostanze paradossali ed eccezionali. Naber propone un approccio beffardo, puntando su una parodia dei racconti di spionaggio di John Le Carré, con personaggi brillantemente stereotipati. La scrittura, molto efficace, determina una narrazione incalzante e ricca di colpi di scena, ma genuinamente antiretorica, in bilico tra toni assurdi e tragici, e accompagnata da una vivace e nervosa colonna sonora curata dallo stesso Naber.

Section Panorama

Mogul Mogwli, (UK, w. p., 2020, 1° film), 90’, del pakistano, trapiantato in USA, Bassam Tariq.

Un dramma radicale, intenso e coinvolgente, in cui convivono crisi di identità, malattia e rapporti familiari. Zed (Riz Ahmed) è un rapper trentenne britannico di origine pakistana che, approdato negli USA, sta vivendo il momento cruciale del possibile definitivo decollo della carriera. Invitato a comparire in un prestigioso show in Gran Bretagna, vi ritorna dopo due anni di assenza e si reca a visitare la famiglia che vive ancora in una modesta casetta in un quartiere popolare della periferia occidentale di Londra (West London). L’incontro con il padre conservatore che, tacitamente, disapprova la sua carriera artistica e con il clan familiare, religiosamente devoto, rinfocola amari ricordi degli anni giovanili. Poi Zed inizia ad accusare vivide allucinazioni: i fantasmi culturali del passato incombono sulle tensioni del presente. Le immagini della sua infanzia e delle tragiche esperienze della sua famiglia, durante la Partizione tra India e Pakistan del 1949, lo perseguitano.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Mogul Mogwli", Bassam Tariq

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Successivamente, l’improvvisa insorgenza di una grave e misteriosa malattia autoimmune lo porta al ricovero ospedaliero ed entra in un tunnel disperato. Di fronte alla secca alternativa tra vita e morte Zed decide di accettare un piano di cura sperimentale che come effetti collaterali può procurargli l’impotenza sessuale e danni alla voce che possono stroncare la sua carriera. Zed vive un incubo surreale, dovendo confrontarsi con la disapprovazione dei familiari, il dolore e il rammarico per essere stato sostituito da un rivale privo di talento nel suo primo tour mondiale di supporto a una grande star musicale, l’ossessione di non poter lasciare un’eredità artistica e le persistenti illusioni allucinatorie. Fino ad un inaspettato finale. Bassam Tariq abbraccia la natura astratta del subconscio, e il film si sposta verso una direzione surreale che cattura perfettamente il turbamento interiore e la confusione che viene come parte integrante della doppia coscienza identitaria di Zed. Riz Ahmed, attore e anche rapper, offre un’interpretazione piena di energia e di sfumature in un dramma coraggioso che per lui, che è anche co-sceneggiatore del film, assume una valenza semiautobiografica. La regia nervosa di Tariq, con una forte tensione fisica enfatizzata nei ripetuti close up e il lirismo di immagini dei flashback, pur con qualche eccesso drammatico e artificioso dovuto a limiti di scrittura, è molto efficace. Mescola realismo, naturalismo e deriva surreale. La colonna sonora è eccellente: un mix di musica e di testi, tra rabbia e tristezza, con le canzoni del gruppo “Swet Shop Boys”, di cui Riz Ahmed, con lo pseudonimo di Riz MC, è il componente più importante. FIPRESCI Award: Best Film for Section Panorama

Synonymes Nadav Lapid

“Shine Your Eyes” di Matias Mariani

 

Cidade pássaro (Shine Your Eyes), ( Brasile / Francia, w. p., 2020, 1° film), 102’,di Matias Mariani.

Un attraente e coinvolgente dramma - thriller esistenziale in cui si intrecciano vari temi: la relazione tra fratelli; il confronto tra identità e idiomi diversi; la contrapposizione tra logica matematica e aleatorietà dell’esistenza umana, che si nutre di paradossi. E, soprattutto, propone un omaggio anticonvenzionale a São Paulo, una città enorme, complessa e composita, con un panorama di svettanti edifici verticali con architettura modernista e di avanguardia, continuo movimento e multiple e inaspettate contaminazioni culturali. Il musicista nigeriano trentenne Amadi giunge a São Paulo senza conoscere la lingua portoghese. Inviato dall’anziano madre, si propone di trovare Ikenna, il fratello maggiore, geniale matematico, che è sempre stato un esempio e un mentore per lui.

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Quest’ultimo, in seguito a una crisi personale, ha abbandonato la fidanzata e da Lagos si è trasferito diversi anni prima nella metropoli brasiliana. Per altro, nel corso del tempo, non si è mai messo in contatto con la sua famiglia, che appartiene alla minoranza Ibo (o Igbo), un popolo con una specifica cultura nell’ambito del mosaico etnico nigeriano. Amadi è spinto anche da una motivazione specifica: se non ritrova il fratello e non lo riporta a Lagos, l’assenza del primogenito determinerà che responsabilità e doveri familiari ricadano interamente sulle sue spalle, mettendo in crisi il suo stile di vita libero e indipendente. Amadi inizia un’inchiesta impossibile girovagando nella città, vistando appartamenti, bar e locali e contattando molti afrobrasiliani che nella maggior parte dei casi non lo capiscono. Ritrova segni della presenza di suo fratello, ma sembra sempre arrivare troppo tardi nei luoghi in cui è stata segnalata la presenza del misterioso Ikenna. Matias Mariani, che vanta una solida esperienza di documentarista, ha realizzato un’opera in cui si intrecciano aspetti di indagine antropologica ed elementi di cinema di genere per cercare di rappresentare la dialettica culturale ed esistenziale della città dove è nato e dove risiede: São Paulo. È una città cosmopolita in cui si sono mescolate e sovrapposte, nel corso dell’ultimo secolo, varie ondate migratorie: dall’Europa, in particolare dall’Italia e dai Paesi dell’est, dal Giappone, dall’Africa e da altri stati del Brasile, in particolare e massicciamente dal Nordeste. Insieme ad altri sei sceneggiatori Mariani ha compiuto un lungo lavoro di ricerca sull’etnia Ibo, stabilendo anche contatti con la comunità nigeriana emigrata a Londra, con lo scopo di introdurre nel film riferimenti autentici relativi alla diaspora africana. Ne risulta una narrazione stratificata che evidenzia il disagio esistenziale, ma anche la specificità identitaria dei personaggi, evitando l’esotismo picaresco e la deriva didascalica. Cidade pássaro pone domande e non offre facili risposte, configura atmosfere e dilemmi, è vitale e irrisolto, ma mai disperato, né reticente o pretenzioso.

Minyan, (USA, w. p., 2020, 1° film), 111’, di Eric Steel.

Un esordio prezioso. Un racconto di formazione, ambientato a New York durante i primi anni ’80. Una dramedy che mette a fuoco la complessità della fine dell’età adolescenziale e la scoperta della propria sessualità da conciliare con i legami familiari e culturali. David, un diciassettenne ebreo, figlio di immigrati russi, abita nel distretto di Brighton Beach, a Brooklyn, una piccola enclave con presenza maggioritaria di ebrei russi, e quindi fortemente caratterizzata in termini etnici, nell’epoca precedente il fenomeno di più intensa gentrificazione. Suo padre, sua madre e il nonno, un omino spiritoso e dinamico a cui il giovane è molto affezionato, lo hanno educato secondo le regole della loro comunità e danno per scontato che lui si senta a proprio agio. In effetti David partecipa regolarmente alla comunità di preghiera (il minyan) che si riunisce nella casa di riposo dove soggiornano suo nonno e altri anziani. Si cala nelle tradizioni e si sente coinvolto nei piccoli drammi di uomini e donne sul viale del tramonto.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Minyan", Eric Steel.

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Tuttavia, contemporaneamente, scopre la propria omosessualità e, segretamente, inizia a frequentare i bar e i locali dell’East Village, centro della presenza gay a New York. Ma deve confrontarsi con l’inizio della diffusione dell’AIDS. Poco a poco inizia a porsi delle domande rispetto alle regole e ai principi della comunità ebraica. E trova alcune risposte coltivando l’amicizia con una coppia di anziani ebrei omosessuali ospiti della casa di riposo. Il cinquantacinquenne Eric Steel ha realizzato un paio di interessanti documentari, The Bridge (2006) e Kiss the Water (2013), in cui ha mostrato una notevole capacità osservazionale del carattere e della psicologia di diverse tipologie di persone. Minyan è basato su un racconto David Bezmozgis e trae spunto anche dall’esperienza personale di coming out dello stesso regista durante gli anni ’80. Steel rievoca la sua giovinezza e propone un sincero ritratto d’epoca e una caratterizzazione dei personaggi largamente priva di stereotipi e di accenti didascalici, rivela una notevole misura e qualità nella narrazione, scandita da uno humour raffinato, e dirige al meglio un ottimo cast di attori. Inoltre mostra alcune affinità con il cinema riflessivo, dedicato ai sentimenti dei personaggi, di Ira Sachs

Synonymes Nadav Lapid

“Mare” di Andrea Štaka

 

Mare, ( Svizzera / Croazia, w. p., 2020, 3° film), 84’, di Andrea Štaka.

Un convincente e veridico ritratto femminile, tra solitudine e desiderio di una svolta esistenziale. È ambientato nella periferia di Dubrovnik, ben lontano dal fascino artistico dell’antico centro storico della città dalmata e dalle sue spiagge turistiche. Mare (Marija Skaricic), è una quarantenne attraente e non rassegnata, nonostante da anni si sia abituata alle ristrettezze della condizione sociale proletaria e al suo ruolo di madre di famiglia. Si arrangia nel miglior modo possibile nel piccolo appartamento in affitto, in un caseggiato la cui costruzione non è mai terminata, dove vive insieme al marito Djuro (Goran Navojevic), un uomo massiccio che lavora come carrellista all’aeroporto, e ai tre figli adolescenti.

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Pulisce, lava, stira, cucina con dedizione e fa miracoli con il poco denaro che le passa il coniuge. Ma la lavatrice funziona male e non riesce a risparmiare per comprarsi un nuovo reggiseno Nella sua vita non succede nulla di diversamente piacevole: né una cena al ristorante, né una vacanza. La famiglia sembra unita, tra scherzi, piccoli bisticci e rapide riconciliazioni, ma Djuro da tempo non le riserva alcuna sorpresa romantica e i figli non rispettano la sua privacy quando la mattina si trova in bagno. Mare non può dichiararsi scontenta, ma sente che la routine quotidiana sta anestetizzando i suoi sentimenti e le impedisce di essere felice. Un giorno incontra casualmente Piotr (Mateusz Kosciukiewicz), un trentenne polacco che lavora come caposquadra in un cantiere stradale. Quell’uomo gentile, che le parla in modo diverso, riaccende la sua libido e la spinge impulsivamente a osare: in breve allaccia una relazione clandestina con lui. Ritrova l’entusiasmo dell’amore e una passione nuova e genuina, spingendosi a fantasticare di abbandonare la famiglia. Al centro del cinema della quarantasettenne Andrea Štaka, svizzera, con origini croato - bosniache, vi sono le donne, descritte con sensibilità e acume nelle loro contraddizioni esistenziali. Nei suoi due film precedenti, Das Fräulein (2006), Pardo d’Oro al Festival di Locarno, e Cure: The Life of Another (2014), Štaka racconta personaggi femminili di diversa età. In Mare opta per una narrazione che valorizza la fisicità dei personaggi, per delinearne, con pudore e misur,a l’universo sentimentale. Attraverso un’efficace strategia di valorizzazione dei dettagli mette gradualmente a fuoco il peso del ricatto emotivo della tradizione patriarcale che congiura contro la liberazione della protagonista rispetto ai vincoli familiari. Ma evita accuratamente la deriva psicologista e didascalica. L’empatia nei confronti della protagonista è indubbiamente favorita dalle doti interpretative di Marija Skaricic, attrice feticcio presente in tutti i lungometraggi di Andrea Štaka.

Surge, (UK, i. p., 2020, 1° film, W. P. at SUNDANCE F. F. 2020, World Dramtic Competition Best Actor Award), 99’, di Aneil Kaira.

Una storia contemporanea di ordinaria follia urbana, senza un attimo di tregua, ovvero il diario di un break down mentale, spia di una profonda alienazione. È un thriller esistenziale, minimalista e viscerale, concentrato in 24 ore, con un crescendo parossistico, tutto giocato sul manierismo visivo: provocatorio, estenuante, ma anche coinvolgente. Il trentenne Joseph (Ben Whishaw) abita in un miniappartamento, modesto e impersonale, in un chiassoso quartiere periferico di Londra. La sua vita è scandita da una routine arida e grigia. È un addetto alla sicurezza a Stansted, uno degli aeroporti della capitale britannica. Il suo lavoro di ispezione al checkpoint con metal detector è ripetitivo: consiste in un continuo contatto con svariate persone durante molte ore. Magro, dimesso, sempre corrucciato e a testa bassa, mostra gesti compulsivi e strani tic facciali ricorrenti. Si limita a eseguire i compiti assegnati, ma non socializza con gli altri, nemmeno con i suoi colleghi.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Surge", Aneil Kaira

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Irritato dal comportamento di un passeggero, finisce per irriderlo e infastidirlo e il supervisor lo congeda. Quindi, più tardi, Joseph si reca a casa dei suoi genitori, Joyce (Ellie Haddington) e Alan (Ian Gelder), dove è atteso per il pranzo in occasione del suo compleanno. Ma risulta evidente che il rapporto con loro è sempre stato teso e difficile. Sua madre Joyce, in particolare, lo critica e lo provoca con osservazioni banali, e si irrita quando lui entra in cucina e la vede preparare una torta che avrebbe dovuto essere una sorpresa. Joseph, incupito, morde violentemente il bordo di un un bicchiere e finisce per spezzarlo, lacerandosi la mucosa buccale con abbondante sanguinamento. Sua madre inizia a urlare perché ha sporcato la moquette. Poi visita Lily (Jasmine Jobson), una graziosa collega da cui è attratto. La giovane donna ha appena comprato una nuova televisione e Joseph si offre di aiutarla a farla funzionare. Ma, accortosi che è sprovvista del cavo necessario, si reca in un negozio per acquistarlo. Al momento di pagare la sua carta di credito non funziona. Quindi si reca in una banca e compie una farsesca rapina, chiedendo e ottenendo solo la piccola somma di cui ha bisogno. Tornato nell’appartamento di Lily, conclude l’installazione. La donna lo ricompensa concedendogli un rapido rapporto sessuale consumato in piedi nella cucina e poi lo congeda. Sempre più frustrato, Joseph, sempre più sconvolto, cammina velocemente nelle strade del quartiere, scatenando la sua rabbia violenta contro un ignaro passante. Si assiste alla sua caduta libera in una spirale grottesca di piccoli incidenti, uno dopo l’altro, fino a un’improvvisa brusca interruzione. L’esordio di Aneil Karia è molto promettente. In parte originale studio caratteriale, in parte thriller sui generis, propone un personaggio evidentemente introverso e infelice, senza rivelare nulla rispetto alle ragioni e alla storia del suo oscuro disagio emotivo. È un antieroe fragile, che inaugura un processo temerario e sconsiderato di repentina rivelazione di sé stesso e liberazione che diventa una bizzarra discesa agli inferi. Per altro le sue azioni stravaganti, violente e autolesioniste, sembrano prive di motivazioni e inspiegabili e la vicenda non si conclude con una tragedia, né con una catarsi. L’approccio radicale, venato di umorismo surreale, mescola gusto per il paradosso picaresco e rappresentazione di un tetro malessere. E prospetta una relazione si con il cinema di Antonio Campos sia con Good Time (2017), dei fratelli Josh e Benny Safdie. Inoltre Joseph, il protagonista del film, fa pensare anche a William"D-Fens" Foster (Michael Douglas ), il protagonista di Falling Down (1993), di Joel Schumacher. La trama non è il punto di forza di Surge perché il film è sostanzialmente costituito da una collezione di episodi che si susseguono con nervosa intensità. La narrazione accelera progressivamente assumendo un ritmo incalzante, e a tratti frenetico, di pari passo con l’ accentuazione del comportamento erratico e imprevedibile di Joseph e con l’esacerbazione della sua mimica facciale. La messa in scena è fortemente caratterizzata da un magistrale, e quasi disturbante, utilizzo della telecamera a mano, sempre in movimento e oscillante, con inquadrature strette e frequenti close up del volto e del corpo del protagonista e con una fotografia dai colori tenui, curata da Stuart Bentley, che denotano un’approssimazione stilistica ai primi film di Jean - Pierre e Luc Dardenne, segnatamente a Rosetta (1999). La performance di Ben Whishaw è decisiva e straordinariamente efficace nell’economia del film: tra mimica facciale frenetica, torsione del collo, continui movimenti delle mani e camminata a scatti simula una condizione che mette insieme stimmate dell’autismo, della sindrome di Tourette e di una qualche forma di psicosi schizofrenica.

Synonymes Nadav Lapid

“The Assistant” di Kitty Green

 

The Assistant (USA, i. p., 2019, 1° film, W. P. at TELLURIDE F. F. 2019), 87’, di Kitty Green (Australia).

Un eccellente dramma esistenziale, con precisi risvolti sociali. È un film claustrofobico che configura dettagliatamente i meccanismi gerarchici negli uffici di un impresa privata, con la “normale” mortificazione riservata a una giovane donna che ricopre un ruolo subordinato. La vicenda si svolge pressoché interamente nello spazio chiuso degli uffici di una consolidata casa di produzione cinematografica di New York, nel corso di una lunga giornata di lavoro. La ventenne Jane (Julia Garner perfettamente nella parte), di cui si apprende casualmente un background di ottimi studi in un college rinomato, è un “assistant”, ovvero una dipendente con inquadramento base, che lavora come segretaria solo da 5 settimane. Ma è già stata perfettamente indottrinata e addestrata rispetto alle svariate incombenze organizzative che svolge per conto di un affermato produttore, autoritario, arrogante e scontroso.

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Ha accettato quel lavoro non adeguato alla sua qualificazione perché nutre la segreta speranza di fare carriera e di giungere un giorno a un incarico operativo per produrre film o magari di acquisire esperienza per diventate una independent producer. Nell’incipit, prima dell’alba, sale su un auto di servizio che la porta dal quartiere periferico dove risiede agli uffici dove lavora, collocati in un paio di palazzi di Lower Manhattan. I locali sono deserti, ma Jane si mette subito all’opera: accende le luci al neon e i computer; pianifica le agende e prepara i dossier di lavoro per i componenti dello staff; stampa sceneggiature in lavorazione e archivia foto di aspiranti attrici; predispone il buffet di ristoro e ordina pranzi e medicine; risponde alle e-mail e organizza prenotazioni di voli aerei a Los Angeles; pulisce l’ufficio del boss, raccattando orecchini sul pavimento e smacchiando il divano, e predispone le pratiche sulla scrivania. Nel corso della giornata si assiste a una sequela di situazioni da cui risulta che Jane deve occuparsi di rispondere a tutte le richieste e le esigenze pratiche dei membri dello staff e di accogliere ospiti e interlocutori del capo. Inoltre deve farsi carico anche delle contumelie della petulante moglie del boss, salvo poi essere offesa e insultata da lui, che non le risparmia le sfuriate (a cui Jane deve rispondere con invio di e-mail di scuse). Per non parlare del fatto che è obbligata a subire atteggiamenti di sufficienza e innumerevoli piccole vessazioni e umiliazioni da parte dei colleghi quasi tutti maschi e visibilmente misogini. Tra l’altro il collerico produttore che occupa l’ufficio a pochi metri dalla scrivania di Jane non viene mai inquadrato: l’ottimo stratagemma consente che la sua presenza minacciosa sia rivelata solo dalla voce imperativa durante le discussioni con i dipendenti. La narrazione procede accumulando episodi, anche ripetuti, e mettendo a fuoco gesti, comportamenti, scene di stress e di umiliazione, in un’atmosfera pesante e nervosa che mette a dura prova Jane. La capacità di resistenza della protagonista è notevole finché, spinta da scrupoli morali, prende una decisione ardita. Quando in ufficio arriva una donna, ancora più giovane di lei, una provinciale ingenua e carina, che si presenta come seconda assistant e viene spedita in un hotel su disposizione del capo che poi esce per raggiungerla, Jane si reca da Wilcock, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, per richiedere chiarimenti rispetto al proprio coinvolgimento nella faccenda. Ma non ottiene nulla e viene addirittura catechizzata dal cinico interlocutore che da un lato la rassicura dicendole di non temere perché non è il tipo di donna che attira l’attenzione sessuale del capo e dall’altro le prospetta la velata minaccia di un licenziamento se non dimentica l’episodio che sembra essere il frutto di una routine consolidata. A tarda sera, Jane esce sola dall’ufficio e, prima di tornare a casa, si siede in una cafeteria riuscendo infine a telefonare a suo padre per fargli gli auguri di buon compleanno: una breve conversazione in cui non racconta nulla del suo lavoro e da cui si intuisce che il giorno dopo sarà nuovamente presente al lavoro, nonostante tutto. Kitty Green propone un approccio minimalistico e low - key, senza indulgere in spiegazioni e sottolineature, che risulta del tutto efficace, intrigante e antiretorico. Sceglie di raccontare in termini molto verosimili quella che dovrebbe essere una giornata tipo di ordinario lavoro, seguendo passo passo la protagonista, pedina asservita di un consueto meccanismo di potere, senza un’identità al di là delle proprie mansioni, essenziali, ma ben poco apprezzate. Fonde aspetti documentaristici e suggestioni di thriller dell’anima per configurare sia un accurato studio di carattere della protagonista, sia una disanima delle dinamiche del potere, tra coercizione e forzata complicità. Pur essendo presumibile che fonte d’ispirazione per The Assistant possa essere stata la casa di produzione Miramax e il famigerato produttore - mogul Harvey Weinstein, Kitty Green, che ha dichiarato di essersi basata su un attento lavoro di ricerca comprendente svariate interviste a impiegate di uffici di imprese diverse di vari settori, non si è proposta un’opera di mera denuncia con risvolti scandalistici. Proprio la qualità della scrittura e della narrazione che descrivono minuziosamente la vita lavorativa di Jane e la solidità della messa in scena, semplice e rigorosa nell’alternanza di piani frontali e laterali, nella collocazione dei personaggi nello spazio e nella scelta di omettere qualsiasi score musicale, enfatizzando invece i rumori ambientali dell’ufficio e brani di conversazioni convenzionali, (fa pensare, in qualche modo, a Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, il film del 1975 di Chantal Akerman e alle opere di David Mamet), consentono di ottenere un lucido ritratto di una condizione femminile, costretta ad accettare gli abusi, che assume una valenza più generale, evitando la banale deriva didascalica presente nel dibattito contemporaneo su questo tema.

Section Forum

Namo (The Alien), (Iran, w. p., 2020, 1° film), 89’, di Nader Saeivar.

Un esordio molto convincente. Un dramma esistenziale che evidenzia con lucidità gli effetti del rigido controllo della popolazione da parte della dittatura teocratica iraniana. La vicenda si svolge in una città sconosciuta del nord - ovest del Paese, in un quartiere piccolo borghese dove convivono persone di diversa etnia, in maggioranza turcofoni - azeri, mentre la famiglia del protagonista è di etnia kurda. Il quarantenne Bakhtiyar (Bakhtiyar Panjeei), insegnante di storia in un liceo, vive con la consorte casalinga (Sevil Shirgi), la loro bambina di sette anni e l’anziano padre, che in passato è stato un oppositore del regime, mentre ora presenta un discreto decadimento cerebrale. È un uomo riservato e disciplinato, ma non privo di orgoglio: parla il farsi molto meglio dei vicini e svolge il suo lavoro con impegno, essendo ancora in attesa di stabilizzazione definitiva (come risulta dalla scena significativa in cui sorprende uno studente che copia durante un esame e ne propone una sospensione disciplinare).

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Namo", Nader Saeivar.

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In aggiunta, per far quadrare il bilancio familiare, lavora anche come taxista non ufficiale, utilizzando la propria auto. La noiosa routine della strada dove vive Bakhtiyar viene interrotta da un’ondata crescente di inquietudine, di diffidenza e di agitazione quando il proprietario del minimarket e il meccanico notano che da giorni, di fronte ai loro esercizi, staziona permanentemente un’auto con due uomini a bordo, che sembrano svolgere un’attività di vigilanza. Tutti sembrano certi che si tratti di uomini dei servizi segreti: quindi inizia una tormentata discussione per individuare chi sia l’obiettivo della sorveglianza speciale. Una serie di piccoli indizi mostra la separatezza di Bakhtiyar dai propri vicini, nonostante egli non si sottragga ai contatti sociali. Ben presto, tra gli abitanti cresce la paura, anche perché contemporaneamente si moltiplicano altri segnali di tensione: alcuni elicotteri volteggiano minacciosamente sopra la città e le radio riferiscono di episodi di protesta di massa contro il regime. Fino a che, dopo che si sono verificati chiari episodi di isteria tra coloro che temono di dover rendere conto di colpe precedenti (il giovane figlio del negoziante con un passato di tossicodipendenza o l’uomo responsabile di sottrazione fraudolenta di denaro nella banca presso cui lavora), inizia un’affannosa ricerca del “colpevole” accompagnata da accuse controaccuse tra gli abitanti. Alla fine i sospetti cadono proprio su Bakhtiyar, perché secondo i suoi vicini è il nuovo venuto, è “diverso” e sembra non essere interessato all’auto che li ossessiona. Nader Saeivar descrive lucidamente un microcosmo in cui l’atmosfera diventa progressivamente inacciosa e soffocante, mettendo a nudo un lento, ma inesorabile processo di auto coercizione psicologica e di nevrosi paranoica e una deriva discriminatoria e, in ultima analisi, razzista. Ha realizzato un’opera di esordio ben scritta (la sceneggiatura è curata dallo stesso regista e dal suo amico, il filmmaker Jafar Panahi, che è responsabile anche del montaggio), con una messa in scena sobria, che valorizza i dettagli sottotesto, e i dialoghi oltremodo significativi e solo occasionalmente troppo esplicativi.

Synonymes Nadav Lapid

“The Calming” di Song Fang

 

Ping jing (The Calming), (Cina, w. p., 2020, 2° film), 89’, di Song Fang.

Un film intrigante e ricco di atmosfere, tra introspezione psicologica e riflessione sull’identità femminile e sulla relazione tra vita personale ed esperienza artistica. Descrive la seducente traslocazione di Lin, una documentarista e videoartista trentenne, tra Cina, Giappone e Hong Kong, per accompagnare l’esibizione della sua ultima opera. Propone un itinerario di viaggi che si confondono visivamente l’uno con l’altro, tra spostamenti con treni, auto e navi, paesaggi diversi, incontri e dolente viaggio interiore. Solo pochi cenni indiretti segnalano che è reduce dalla fine di una storia d’amore con un boyfriend: ma non si sa come e perché la misteriosa separazione sia avvenuta. Ad essa si è aggiunta una crisi creativa. Lin osserva le cose e le persone con uno sguardo vagamente interrogativo, come se stesse catalogando materiali per un film.

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L’angoscia minaccia di emergere oltre la compostezza che mostra nei rapporti in sede familiare, con i genitori, e professionale. La sua condizione esistenziale oscilla tra solitudine, curiosità per la realtà circostante, ma anche incapacità di provare vero piacere, sentimenti ermetici e ricerca di uno stato mentale di accettazione della vita con i suoi corsi e ricorsi. The Calming, prodotto da Jia Zhang-ke e da Steven Xiang, è un’opera intima, che conferma una vena poetica minimalista e introversa, realizzata con grande rigore stilistico e qualità estetica. Song Fang ripropone temi ed elementi estetici della sua opera di esordio Memories Look at Me (2012), premiata al Festival di Locarno come Best First Feature Film. È un dramma minimalista autobiografico in cui racconta il viaggio da Beijing a Nanjing per visitare gli anziani genitori e da cui emergono sentimenti sia di perdita che di resilienza. In effetti si tratta di una esplorazione delle disposizioni d’animo di una generazione e del timore di ripercorrere la vita dei propri genitori. Nel secondo lungometraggio Song Fang accentua il suo approccio contemplativo, in bilico tra osservazione della realtà e descrizione dello stato di stordimento mentale ed emotivo della protagonista che ne accompagna la crisi affettiva e creativa. Il ritmo narrativo è lento ed è scandito dall’ampio uso dei piani sequenza. I reiterati close up del volto di Lin, filo conduttore della narrazione non lineare, registrano un graduale processo di pacificazione, oltre l’angoscia, e di recupero della capacità di provare consolazione e contentezza. CICAE Art Cinema Award: Best Film for Section Forum

Chico ventana también quisiera tener un submarine (Window Boy Would Also Like to Have a Submarine),(Uruguay, w. p., 1° film), 80’, di Alex Piperno.

Un dramma surreale e fantastico, originale e creativo, sperimentale e affascinante, sorprendente ed enigmatico. Piperno concepisce tre microcosmi lontani e diversissimi, simulacro di location reali, ma privi di logica. In ognuno di questi tre mondi vi è un protagonista alle prese con bisogni e contraddizioni. Un ventenne senza nome, (Daniel Quiroga), è imbarcato come marinaio su una piccola nave da crociera di lusso che viaggia lungo le coste della Patagonia. Il suo comportamento è strano. Mostra una certa avversione nel dover servire e intrattenere i ricchi turisti ospiti, trascura i propri compiti e, invece, si assenta per avventurarsi nella stiva dell’imbarcazione, camminando circospetto come se stesse esplorando un mondo sconosciuto e cercando una via di fuga.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

"Window Boy Would Also Like to Have a Submarine", Alex Piperno

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Nonostante i rimproveri e la minaccia di essere espulso da parte dell’ufficiale preposto, non desiste. Elsa (Inés Bortagaray), una trentenne appartenente alla classe media, abita sola in un grande appartamento in un’area residenziale di Montevideo: sembra infelice e soffre di insonnia. Noli (Noli Tobol) è un contadino che vive in un’area tropicale delle Filippine, nella provincia di Ifugao: insieme ai suoi compagni deve fronteggiare una natura selvaggia e cerca di preservare tradizioni secolari. Ma un giorno sono sconcertati e intimoriti dall’improvvisa apparizione di una misteriosa piccola torre cilindrica di cemento armato con una porta di ingresso che non riescono ad aprire. Questi tre personaggi non si conoscono, ma grazie a un’evenienza del tutto insolita, entrano in contatto tra loro e si comportano in maniera anomala. Durante una delle sue passeggiate notturne in cui vaga come un fantasma, il marinaio scopre una“porta “magica” in fondo alla stiva, la apre e improvvisamente, senza alcun effetto speciale, si ritrova nel corridoio dell’appartamento di Elsa. La donna, dopo qualche esitazione, lo accoglie con naturalezza. Tra i due non vi sono dialoghi, ma, notte dopo notte, si stabiliscono un’empatia e una misteriosa intimità che sembrano alleviare il loro imprecisato disagio. Da quel momento le tre subtrame si incrociano e si intrecciano. Fino a quando i due sudamericani trovano un altro passaggio astrale che, dalla stiva della nave, mediante una scala a pioli, li porta alla torre cilindrica al centro dei campi coltivati dai contadini filippini. Nel frattempo questi ultimi, dopo aver compiuto un rituale con sacrifici e offerte agli spiriti, senza aver ottenuto alcuna risposta, hanno deciso di passare all’azione. Alex Piperno costruisce un labirinto spaziotemporale con parvenze magiche e soprannaturali, prospettando un’esperienza di sapore onirico, avventurosa e drammatica, priva di deriva umoristica. Apparentemente è una non storia rivestita dal genere fantastico, che, solo nell’idea di fondo, può rapportarsi a un film considerato inusuale quando venne realizzato e distribuito: Being John Malcovich (1999), di Spike Jonze. Si tratta invece di un percorso esistenziale misterioso giocato su una lenta deambulazione e su incontri fortuiti, con una comunicazione quasi non verbale, ma sensoriale e primitiva, tra personaggi curiosi e ansiosi al tempo stesso. Il regista opta per un calmo approccio contemplativo, mostrando un chiaro apparentamento con la grammatica estetica di autori quali Apichatpong Weerasethakul e Tsai Ming - liang. Per altro non si tratta di un’opera derivativa rispetto a l cinema dei suddetti registi asiatici, anche perché la poetica di Piperno appare ancora poco definita e abbastanza pretenziosa. In effetti Chico ventana también quisiera tener un submarine è un’opera che sembra lasciar trasparire un curioso intento didascalico: l’auspicio di un incontro di mondi e di popolazioni diverse e il rifiuto della globalizzazione

 

 

 

 


 

 

 

 

70. BERLIN FILM FESTIVAL I 70. Berlinale 2020: vince l’altro cinema iraniano... I BY GIOVANNI OTTONE I 2020
70. BERLIN FILM FESTIVAL I i migliori film  delle sezioni Encounters, Berlinale Special, Panorama e Forum ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2020

70. BERLIN FILM FESTIVAL

20 / 02 - 01 / 03 / 2020, Berlin

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