interference
interference
eng
de
es
it
it
tr
 
px px px
I
I
I
I
I
I
info

px

impressum
contact
archive
facebook

 

px

 

pxrouge FESTIVAL REVIEWS I 70. BERLIN FILM FESTIVAL I 70. Berlinale 2020: vince l’altro cinema iraniano ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2020

70. Berlinale 2020: vince l’altro cinema iraniano
L’atteso rinnovamento del Festival non ha convinto

Orso d’Oro per il miglior film a “There Is No Evil”, di Mohammad Rasoulof e Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria, a “Never Rarely Sometimes Always”, di Eliza Hittman

by Giovanni Ottone

The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov

px
px


La 70. Berlinale, svoltasi dal 20 febbraio al 1 marzo, doveva essere un’edizione di svolta, in coincidenza con la celebrazione del prestigioso 70° anniversario: un’opportunità molto attesa di rinnovo e di rilancio dopo la nomina, nella primavera del 2019, del nuovo Direttore Artistico, il critico e programmatore italiano Carlo Chatrian, già Direttore Artistico del Festival di Locarno dal 2012 al 2018. Giova ricordare che storicamente la Berlinale è il più importante Festival internazionale del mondo come affluenza di pubblico, con una media, negli ultimi anni, di circa 340.000 ingressi e proiezioni dei circa 350 film (in maggioranza premières mondiali e anteprime internazionali), tra cortometraggi e lungometraggi, feature film e documentari, presentati in tutte le sezioni. Inoltre vede la presenza di oltre 20.000 accreditati, tra cui 4000 critici e giornalisti, registi e altri professionali del settore e operatori dell’industria, anche perché è sede di uno dei più importanti mercati cinematografici, lo European Film Market, iniziato nel 1978, con buyers e sellers di film da tutto il mondo. È un Festival, di categoria A, che si svolge in una metropoli internazionale e che vanta una tradizione storica di impegno e di qualità, perché il suo programma si caratterizza per la costante presenza di opere che affrontano temi di grande attualità con risvolti politici e di impegno civile, ma anche film che trattano in termini nuovi l’identità individuale, il disagio all’interno dei rapporti di coppia e nella famiglia e le relazioni sociali. Inoltre nel corso degli anni ha promosso diversi giovani autori esordienti di talento e il cinema più innovativo, attraverso due sezioni di punta, “Panorama”, amatissima dal pubblico per la presenza di film a metà strada tra art house e big audience, i film con tematica LGBT e i documentari di rottura e di denuncia e “Forum”, culla del cinema indipendente e sperimentale, che quest’anno ha celebrato il 50° anniversario. Come noto Chatrian è stato chiamato a sostituire lo storico direttore della Berlinale dal 2001 al 2019 , il tedesco Dieter Kosslick, un uomo che ha largamente contribuito alla crescita della “Berlinale” aggiungendo nuove sezioni e iniziative, tra cui il Berlinale Talent Campus, inaugurato nel 2003 (dal 2013 denominato Berlinale Talents), dedicato ai giovani autori e sceneggiatori di tutto il mondo, e il “World Cinema Fund”, che finanzia film di giovani autori provenienti da America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente. Il profilo di Kosslick si era progressivamente appannato nell’ultimo quinquennio a causa di alcune scelte specifiche in tema di selezione dei film, che hanno dimostrato un certo conformismo, la predilezione per i film d’epoca, i biopic di personaggi famosi e le tematiche politicamente corrette e soprattutto, secondo i detrattori, per aver subito la supremazia del Festival di Cannes e della Mostra di Venezia.

Purtroppo, in sede di bilancio, occorre rilevare che le scelte di nuova configurazione di sezioni e programmi operate da Chatrian, e del suo team di stretti collaboratori (in gran parte gli stessi che lo hanno coadiuvato e consigliato durante il suo incarico per sei anni al Festival di Locarno), hanno determinato una nuova caratterizzazione del Festival più confusa e problematica. Si può sostenere che, pur avendo confermato la storica apertura del Festival al cinema che affronta temi con risvolti sociali e politici significativi e al cinema indipendente più innovativo, Chatrian sembra aver voluto rimodularlo in larga parte a immagine e somiglianza del Festival di Locarno, ma con un surplus di decisioni incerte e velleitarie, che hanno portato la “nuova” Berlinale a essere posizionata precariamente a metà strada tra la caratterizzazione polivalente di alto profilo e quella di tempio della cinefilia più snob e militante. Ciò nasce dalla volontà di Chatrian, che già si era manifestata a Locarno, di non definire un orientamento programmatico e qualitativo coerente, ma di cercare invece di accontentare tutti i tipi di pubblico, avvalorando una concezione che anche nei Festival debba esistere e convivere un cinema di serie A e uno di serie B. Le modifiche più significative attuate sono state le seguenti: l’introduzione di una nuova sezione competitiva, “Encounters”, dal profilo indefinito e molto disomogenea, con il risultato di non configurare affatto una vetrina esclusiva per giovani autori di opere prime e seconde, dato l’intento di imitare la doppia competizione presente nel programma sella selezione ufficiale del Festival di Cannes (laddove in quel contesto la suddetta doppia competizione assume ben altro significato e coerenza), creando un’assurda concorrenza con il “Concorso” ufficiale; l’ampliamento della sezione “Berlinale Special”, che da anni era la più indefinita e composita, trasformandola in una vetrina di film di genere, spesso didascalici, dedicati al grande pubblico, con proiezioni di gala, e portandola ad essere una copia della sezione “Piazza Grande” del Festival di Locarno; il ridimensionamento delle storiche sezioni non competitive “Panorama” e “Forum”, sempre molto seguite dal pubblico, che hanno subito ciascuna un taglio di circa il 20% di film, mettendo in crisi i risultati del lungo e positivo lavoro di consolidamento qualitativo effettuato dai precedenti storici curatori responsabili, rispettivamente Wieland Speck e Christoph Terhechte.

Per quanto riguarda il “Concorso” ufficiale dei lungometraggi, che non ha visto la presenza di alcuna opera prima, Chatrian ha proposto un mix di autori con prevalenza di cinquantenni e sessantenni, tra cui alcuni noti veterani (Philippe Garrel, Hong Sang-soo, Rithy Panh e Abel Ferrara). Purtroppo, mentre i registi asiatici sono risultati ben rappresentativi e i loro film notevoli, la rappresentanze europea è apparsa disomogenea e di qualità insufficiente, con autori che non hanno confermato pienamente il loro talento (Christian Petzold), o sembrano ormai ripetersi, con scarsa originalità e idee (Giorgio Diritti, Sally Potter, Benoît Delépine e Gustave Kervern) o i cui film sono decisamente mediocri e irritanti (le svizzere Stéphanie Chuat e Véronique Reymond e il tedesco Burhan Qurbani). E ancora, i giovani registi sudamericani presenti (i brasiliani Caetano Gotardo e Marco Dutra e l’argentina Natalia Meta) hanno realizzato opere pretenziose, con una improbabile commistione e reinterpretazione di generi e grossolanamente didascaliche (Todos os mortos e El prófugo), mentre il cinema statunitense è risultato rappresentato solo da due registe, considerato che Abel Ferrara vive da anni a Roma e il suo film è una coproduzione italo - tedesca - messicana. Inoltre si può sostenere che una buona metà dei film del “Concorso” sono in definitiva opere deludenti, con provocazioni di corto respiro o immagini emotivamente ricattatorie o convenzionali tratti melodrammatici e affabulatori o caratterizzate da ridicole velleità predicatorie, filosofiche o moralistiche.

Escludendo i film premiati e due opere eccellenti escluse dai premi, che commentiamo in seguito, segnaliamo i film di qualità davvero discutibile. First Cow, settimo lungometraggio dell’americana Kelly Reichardt, e terza rivisitazione del western d’epoca, propone una storia picaresca di amicizia virile, con ingombrante deriva didascalica riguardo la vendetta dei potenti contro i marginali, narrazione estenuante e irritante messa in scena all’insegna di un’estetica decorativa. Conferma la netta evoluzione di una regista che pure con Old Joy (2006) e Wendy and Lucy (2008) aveva proposto un genuino e affascinante cinema minimalista e intimista, caratterizzato dalla sottile vena realistica, dalle tonalità documentaristiche e meditative e dal lirismo dolce-amaro. Siberia, del prolifico americano Abel Ferrara, è un’opera inclassificabile, la misteriosa e pseudo onirico e delirante elegia esistenziale di un maschio in crisi, tra dilemmi filosofici, metafisici e morali, oscuri e pseudo laceranti, elogi del pensiero anarchico, sensi di colpa, ossessioni erotiche e impossibile redenzione. È un film confuso, dispersivo, molto pretenzioso, pretestuoso, manierista e narcisista, che si riassume nella logorrea del povero Willem Dafoe, riecheggia in qualche modo la vena escatologica e allegorica di molti film di Lars von Trier e conferma la definitiva involuzione di un regista che gioca a presentarsi come maudit, ma vive un furbesco declino epicureo all’amatriciana. The Roads Not Taken, della britannica Sally Potter, racconta la parabola esistenziale di uno scrittore cinquantenne precipitato in una grave crisi fisica, data dalla malattia neurologica invalidante, e psichica e morale, conseguenza della memoria tragica del fallimento del suo progetto familiare e delle sue relazioni con le donne, tra ricordi veri e immaginazione di ipotetici scenari diversi se avesse fatto altre scelte, nonostante il tenace tentativo di aiutarlo da parte della figlia ventenne. È un film che alterna l’ambientazione tra una stanza a New York, il deserto messicano e un’isola greca e che non emoziona mai, estenuante, superficiale, estremamente manierista e a tratti grottesco, con abbondanza di stereotipi melodrammatici ed estetici e recitazione naturalista. Berlin Alexanderplatz, del tedesco, di origine afghana, Burhan Qurbani, rischioso tentativo di attualizzare l’omonimo romanzo del 1929 di Alfred Döblin, un classico della letteratura modernista tedesca, e l’omonimo capolavoro televisivo di Rainer Fassbinder, racconta il tragico itinerario di un immigrato africano nei bassifondi della Berlino di oggi, tra violenza, discriminazioni morbose e incertezza degli affetti. È un’opera di oltre tre ore, che non funziona né come film di genere, né come denuncia della condizione degli immigrati, assolutamente pretenziosa e viziata da semplificazioni e stereotipi grossolani, incredibili caratterizzazioni dei personaggi e plurimi eccessi melodrammatici, dai toni esasperati, al carosello di climax e scene madri, a suoni e colori sempre over e, a una pessima direzione degli attori. Schwesterlein (My Little Sister), delle svizzere Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, racconta il rapporto simbiotico tra fratello e sorella gemelli quarantenni, entrambi impegnati professionalmente nel teatro a Berlino, poi divisi, quando lei si trasferisce in Svizzera per motivi di famiglia, e di nuovo riuniti quando lei accorre a soccorrerlo avendo appreso che è affetto da una grave leucemia con prognosi infausta. È un film sulla malattia terminale con una scrittura poco accurata, giocata sul climax drammatico e una messa in scena che spettacolarizza il dolore, l’angoscia e l’abnegazione, utilizzando tutti gli stereotipi possibili, rinunciando a un sobrio e dignitoso studio di caratteri.

La giuria del “Concorso”ufficiale, presieduta dal noto attore britannico Jeremy Irons, e composta dai registi Kenneth Lonergan (USA) Kleber Mendonça Junior (Brasile) e Annemarie Jacir (Palestina), dall’attrice Bérénice Bejo, dall’attore Luca Marinelli (Italia) e dalla produttrice Bettina Brokemper (Germania) ha conferito i tre premi principali a film rappresentativi di precise qualità autoriali, estetiche e narrative., con una lenta intensità, attraverso l’osservazione fisica, intima e poetica, senza dialoghi. L'Orso d'Oro è stato assegnato a Sheytan vojud Nadarad (There Is No Evil), settimo lungometraggio dell’iraniano Mohammad Rasoulof: un film eccellente, in termini di qualità artistica e di rappresentazione di un contesto umano tragico, e senza dubbio il migliore del “Concorso” ufficiale. Rasoulof, condannato a un anno di carcere (per il presunto reato di “propaganda contro lo stato dell’Iran” connesso ai contenuti del suo precedente film A Man of Integrity del 2017) e non detenuto, ma bloccato a Teheran e privato del passaporto, lo ha girato con modalità semiclandestine, grazie allo stratagemma di presentarlo come tre distinti cortometraggi, per confondere la censura statale. In ogni caso si tratta di un’opera compiuta grazie a un profilo produttivo di ottimo livello, grazie alla collaborazione delle case di produzione Cosmopol Film Hamburg (Germania) Europe Media Nest Prag (Repubblica Ceca) e Filminiran (Iran). There Is No Evil offre certamente una palese e lucidissima rappresentazione della natura liberticida e criminale del potere, ma va oltre la denuncia politica e morale. In effetti è un apologo sulla vita e sulla responsabilità individuali delle persone, in particolare di chi resiste, non obbedendo alle disposizioni, agli obblighi e alle minacce imposti dal regime teocratico autoritario e dispotico, e deve pagare un prezzo altissimo per sopravvivere. Al centro del film vi è la questione della pena di morte con riferimento a cosa significa per gli uomini iraniani effettuare il servizio militare obbligatorio ed essere costretti a eseguire le condanne. Giova ricordare che l’Iran è uno dei Paesi in cui la pena di morte viene comminata con grande frequenza e dove il numero di esecuzioni capitali, un centinaio all’anno secondo dati ufficiali, presumibilmente mendaci, è tra i più elevati a livello mondiale. Ambientato in quattro location differenti e costruito con un prologo che introduce tre storie collegate da rimandi e da sottili concatenazioni, racconta le vicende, le scelte e i dilemmi di quattro personaggi, ognuno dei quali coinvolto in forme diverse con la questione delle esecuzioni capitali. Il prologo racconta la routine quotidiana di una famiglia del piccolo ceto medio di Teheran. Il quarantenne Heshmat (Ehsan Mirhosseini) sembra un uomo calmo e tranquillo, gentile e disponibile con gli altri, dedicato completamente alla famiglia. Lo si vede uscire dal posto di lavoro, che sembra essere un ufficio pubblico, dopo aver caricato in auto un sacco contenente la razione di riso che gli è stata assegnata. Torna a casa, in un comodo alloggio di un condominio moderno, si cambia e rassetta la cucina. Dopo aver aiutato i vicini a recuperare un gattino, rimasto imprigionato in un vano delle cantine, si reca a raccogliere la moglie insegnante e la loro bambina all’uscita dalla scuola. Dopo una sosta per la spesa al supermercato, i tre fanno visita all’anziana madre del capofamiglia, il quale consegna parte della spesa e diligentemente rassetta l’alloggio. Quindi consumano la cena in una pizzeria. La sera l’uomo, che mantiene costantemente un’espressione imperscrutabile, senza tradire alcuna emozione, aiuta la moglie a tingesi i capelli, guarda la televisione e poi, dopo aver assunto una pillola, va a dormire. Si risveglia alle tre del mattino, fa una doccia e si reca al lavoro. La sua auto supera un cancello automatico e improvvisamente si scopre che presta servizio in un carcere. Heshmat si prepara la colazione. Nel frattempo la macchina da presa inquadra, attraverso la finestrella della camera dove l’uomo staziona, le gambe allineate di una fila di corpi appesi nel vuoto. Su un monitor si accendono alcune spie rosse che poi diventano verdi. Heshmat preme un pulsante. Le gambe dei condannati all’impiccagione si agitano nel vuoto, in preda a violente convulsioni per poi cessare ogni movimento, mentre i rivoli di urina scendono a terra. È una scena agghiacciante che raffigura, senza alcun clamore sensazionalista, l’esecuzione di un gruppo di detenuti anonimi e che rivela che Heshmat, il marito e padre esemplare, è un boia che agisce con impassibile diligenza ed efficienza. Nel primo episodio, intitolato “She Said: You Will Do It”, il ventenne Pouya (Kaveh Ahangar), sta svolgendo il servizio militare in un carcere. È uno dei componenti di una squadra di una decina di soldati addetti alle esecuzioni capitali. È l’ultimo arrivato nel gruppo e una notte deve affrontare la sua prima volta: è incaricato di togliere gli sgabelli su cui sono appoggiati i piedi dei condannati all'impiccagione. Nell’angusta camerata dove consuma l’attesa l’uomo è agitatissimo. Solleva obbiezioni etiche per giustificare il fatto di non volere essere responsabile della morte di un altro uomo e cerca di trovare il modo di sottrarsi all’ordine che gli è stato impartito. Uno dei commilitoni gli spiega che se è in grado di pagare una forte somma, da spartire con gli altri componenti della squadra per garantire il silenzio e la complicità di tutti, un altro di loro potrebbe sostituirlo. Ma Pouya non possiede il denaro richiesto. A quel punto gli spiegano che se non obbedisce il suo periodo di servizio leva sarà esteso da due a quattro anni, oppure dovrà scontare una pena e, non avendo concluso il servizio militare, in seguito, secondo le disposizioni di legge, non potrà ottenere un posto di lavoro, né potrà trovare una moglie, essendo considerato un cittadino indegno. Poi riceve la telefonata della sua fidanzata. Quando esce dalla stanza, ormai rassegnato a compiere un atto che considera inconcepibile, un compagno lo raggiunge e gli fornisce alcune informazioni. Con la forza della disperazione e rischiando la vita, Pouya riesce a evadere dal carcere dopo aver minacciato a mano armata i custodi. Giunto in strada sale sull’auto della fidanzata. Si avviano verso un futuro ignoto di fuorilegge, in preda a una folle allegria, mentre la radio trasmette le note di “Bella ciao” cantata da Milva (evidentemente Rasoulof ha adottato, un poco prosaicamente, quello che è diventato un inno di rivolta nei paesi del Maghreb e del Medio Oriente). Nel secondo episodio, intitolato “Birthday”, il protagonista, Javad (Mohammad Valizadegan), anch'egli giovane militare di leva, raggiunge Nana (Mahtab Servati), la fidanzata che vive con la famiglia in una casa di campagna. Da molti dettagli si capisce che si tratta di una famiglia rispettabile, ma socialmente emarginata. È un giorno importante perché lei compie diciotto anni e Javad la chiederà in sposa al futuro suocero. Ma, arrivato alla residenza, scopre che Nana e i suoi familiari sono in lutto e si apprestano a commemorare un carissimo amico, uomo buono e saggio, deceduto da pochi giorni.

Solo nel corso della giornata Javad giunge a vedere la fotografia del defunto, scoprendo con sgomento che lo sconosciuto, intellettuale e poeta, incarcerato dal regime con false accuse, è lo stesso uomo che lui ha contribuito a impiccare. In effetti, avendo obbedito all’ordine ricevuto, ha ottenuto l’agognata licenza premio di tre giorni che gli ha consentito di recarsi a visitare la fidanzata. Costernato e tormentato dai sensi di colpa, Javad confessa a Nana quello che ora gli appare essere un odioso crimine a cui lui ha partecipato attivamente. La terza e ultima storia, intitolata “Kiss Me”, è ambientata in una zona collinare semiarida, lontano dalle aree urbane. Una coppia abita in una casa isolata, senza telefono né collegamento internet. Il sessantenne Bahram (Mohammad Seddighimehr), medico e un apicoltore, vive con una compagna un poco più giovane. Ricevono la visita di Darya (Baran Rasoulof, figlia del regista), figlia di un loro caro amico e studentessa di medicina che vive in Germania fin da bambina.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

Mohammad Rasoulof

Trailer

trailer

È una giovane donna emancipata che manifesta apertamente le proprie convinzioni ambientaliste e pacifiste e, invitata a caccia da Bahram, si rifiuta di sparare a un coniglio selvatico. È stata sollecitamente convocata in Iran, ma trascorrono i giorni e non ne capisce il motivo. Poco a poco, con un meccanismo di rivelazione progressiva, si scopre il mistero. Bahram si è esiliato in provincia e svolge la professione pur essendo stato interdetto dal regime perché in gioventù, perché durante il servizio militare si è rifiutato di partecipare a un’esecuzione capitale. Ora è gravemente malato a causa di un cancro al polmone e vuole rivelare a Darya la verità, facilmente intuibile, sul legame biologico che esiste tra loro due e sul perché lei era dovuta andare in Germania con la madre deceduta da tempo. E proprio questo ultimo episodio, che rivela non poche implicazioni con la vicenda personale di Rasoulof, è il più emblematico per le questioni morali che implica. Responsabilità individuale rispetto alla propria coscienza e verso la propria famiglia si intrecciano nel confronto tra generazioni e tra persone che continuano a vivere in Iran, resistendo nonostante la persecuzione che subiscono, e persone che si sono trasferite all’estero, ma non possono rescindere i legami affettivi con chi è rimasto a soffrire. There Is No Evil continua un percorso di denuncia, film dopo film, da parte di Mohammad Rasoulof, rispetto alla insopportabile dittatura politico - religiosa e alla diffusa ipocrisia presenti in Iran. È un dramma che esprime una lucida e lacerante verità sulla fatica di vivere nel Paese, mescolando realismo, simbolismi e limpido umanesimo. Racconta con precisione la violenza e l’illegalità attuate dal potere e, ancora una volta, si rapporta a persone reali in situazioni reali e nel loro quotidiano (tra l’altro sfida apertamente la censura presentando donne a capo scoperto e due fidanzati che amoreggiano in un bosco), presentando quindi tonalità di “thriller dell’anima”. In effetti ogni personaggio deve faticosamente fare i conti con le proprie emozioni e con vari pesi e dilemmi morali che gravano sulla coscienza. In ogni caso, pur lasciando trasparire una sottile empatia nei confronti dei suoi personaggi perseguitati, Rasoulof non li giudica, né manipola strumentalmente la materia narrativa con il fine di influenzare lo spettatore per scuoterlo o commuoverlo o infine alleviarlo mediante un epilogo catartico. Come nei suoi precedenti magnifici film, Rasoulof non esita a descrivere chiaramente anche gli atti repressivi e le macchinazioni criminali degli scherani del regime. Al tempo stesso vuole anche evocare, in qualche modo, il noto e dibattuto concetto della “banalità del male”, elaborato da Hannah Arendt. Peraltro, rispetto ai precedenti Bé omid é didar (Goodbye) (2011), Dast-neveshtehaa nemisoosand (Manuscripts Don’t Burn) (2013) e il già citato Lerd (A Man of Integrity) (2017), lascia emergere uno sguardo meno disilluso, perché alcuni personaggi, che scelgono di resistere all’abiezione disumana imposta dal potere, mostrano forza morale e una chiara volontà e capacità, oltre la speranza, di resistere, preservando la propria vita e una parziale libertà di movimento. A partire da una scrittura drammaticamente solida, Rasoulof, sviluppa una narrazione classica, ma non convenzionale, apparentemente semplice, ma ben controllata e articolata, riconfermando indipendenza e originalità stilistica e dosando suspense e intensità emotiva. Non è mai didascalico e propone un notevole studio di personaggi veri, anche se in parte paradigmatici, valorizzando i dialoghi oltre al non detto e ai silenzi. Ripropone la sua consueta tecnica docu - finzionale, con un tessuto narrativo pluristratificato molto denso e raffinato, nonostante qualche schematismo e alcune dinamiche artificiose nello svolgimento delle situazioni. La solida e intelligente messa in scena inquadra un microcosmo che diventa progressivamente soffocante, mettendo a nudo l’intimità di individui che mostrano una credibile sofferenza esistenziale.

Synonymes Nadav Lapid

“There is no evil” di Mohanmmad Rasoulof

 

La direzione degli attori, che offrono interpretazioni davvero marcanti e incisive, è assolutamente impeccabile. Si segnala anche la fotografia curata da Achkan Ashkani, abituale collaboratore del regista, che modula perfettamente i contrasti di luce e i colori rispetto alle variazioni tra interni ed esterni, giorno e notte, inverno e primavera. Quindi è un film realistico in termini scenografici e sociali, ma, al tempo stesso, assume un significato più ampio e ci rimanda al quadro generale, ovvero al ritratto vero delle contraddizioni che l’intera popolazione vive sotto il giogo del regime teocratico. Non si possono infine non riconoscere analogie con il cinema del noto regista cinese Jia Zhang-ke che racconta la Cina di oggi e il suo “progresso” che calpesta la libertà, la dignità e i diritti della gente comune: un Paese governato, come l’Iran, da un regime dittatoriale in cui sono saltate tutte le mediazioni sociali e politiche. Anche Jia Zhang-ke, come Mohanmmad Rasoulof, affronta temi cruciali che attraversano e influenzano la vita delle persone e racconta itinerari umani controversi e drammatici attraverso un approccio audace e sottilmente partecipativo.

trailer Trailer

L’Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria, è stato attribuito a Never Rarely Sometimes Always, terzo lungometraggio scritto e diretto dall’americana Eliza Hittman. Racconta una storia drammatica di formazione, dedicata al tema dell’aborto e ai gravi ostacoli per interrompere la gravidanza. Lo scenario è quello degli USA di oggi, una società frammentata e poco solidale, condizionata dal conservatorismo politico e ideologico. È un’opera di impronta realista, caratterizzata da un approccio osservazionale ricco di qualità documentaristica, che tuttavia inserisce un interessante studio di caratteri in un contesto eccessivamente programmatico e viziato da alcuni stereotipi. La diciassettenne Autumn (Sidney Flanigan, esordiente con indubbio talento), cresciuta in una famiglia proletaria, abita in una cittadina dell’area rurale della Pennsylvania: una comunità di blue collars e di piccolo ceto medio, con un’economia stagnante, dove predominano i valori tradizionali e non vi è spazio per deviazioni comportamentali. Tranquilla e piuttosto timida e schiva, conduce una vita normale tra la scuola e il lavoro part time, come cassiera in un supermercato, condiviso con la cugina e coetanea Skylar (Talia Ryder), l’unica persona con cui ha stabilito una vera intesa. Alcuni episodi denotano chiaramente il clima di abituale machismo che circonda Autumn: dall’insulto volgare che le rivolge un compagno di scuola, tra l’indifferenza di tutti, mentre la vediamo esibirsi durante un talent show cittadino, suonando la chitarra e cantando ” He’s Got the Power” delle Exciters, gruppo femminile afroamericano, alla ruvida scortesia del supervisor che la redarguisce quotidianamente mentre lavora. Dopo una ricerca online trova l’indirizzo di una clinica a New York dove il caso di Autumn può essere legalmente affrontato e risolto senza alcun costo. La sera stessa alla fine del turno di lavoro al supermercato le due ragazze sottraggono una manciata di dollari dalla cassa e partono in autobus. Giunte a New York City si ritrovano spaesate e i pochi soldi servono appena per mangiare qualcosa. Stazionano nelle stazioni della metropolitana e poi si mettono alla ricerca della clinica. Significativa è la breve la scena in cui Autumn osserva da lontano alcune decine di fanatici cristiani che protestano, con una coreografia truculenta, di fronte a una struttura sanitaria in cui si eseguono le interruzioni di gravidanza. Arrivata alla clinica, Autumn affronta un primo difficile colloquio con una counselor che, stabilito che la gravidanza ha ormai superato 10 settimane e che quindi si deve seguire una procedura d’urgenza, le rivolge varie domande circa le sua vita, la salute, le abitudini sessuali e, soprattutto, cerca di capire se si tratta di un caso di gravidanza successiva a una violenza sessuale.

I quattro avverbi temporali che compongono il titolo del film, “mai, raramente, qualche volta, sempre”, sono appunto le diverse opzioni a disposizione di Autumn per rispondere alle domande che compongono il questionario previsto. Quindi viene fissato l’intervento di interruzione di gravidanza dopo che sia trascorso il breve lasso di tempo stabilito dalla legge. Durante l’attesa le due ragazze si ritrovano a vagare nella città che non conoscono, tra fast food, sale giochi, un bowling e la stazione degli autobus dove si sono recate per acquistare il biglietto di ritorno a casa. Purtroppo il denaro non è sufficiente. Nel frattempo Skylar ha conosciuto un giovane che flirta con lei e riesce a farsi prestare la piccola somma necessaria. La quarantenne Eliza Hittman, formatasi presso la School of Film / Video at California Institute of the Arts e beniamina del Sundance Film Festival, dove ha presentato con successo tutti i suoi film, è interessata a rappresentare i contradditori itinerari esistenziali degli adolescenti, con particolare riferimenti alle loro esperienze di socializzazione e alla loro incerta sessualità.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

Eliza Hittman

 

 

Nei suoi film precedenti, Il Felt Like Love (2013) e il più radicale Beach Rats (2015), ha mostrato originalità di approccio alle insicurezze dell’età postpuberale e sensibilità documentaristica che incontra il minimalismo drammatico con spunti visivi poetici. Never Rarely Sometimes Always, al contrario, è indubbiamente differente perché si caratterizza come un apologo morale, malinconico e intenso. La definizione in tal senso deriva sia dalla maggiore contestualizzazione politica, sociale e culturale con l’epoca di Trump, che vede la prevalenza di valori tradizionali e reazionari e un forte arretramento in tema di diritti civili e delle donne, sia dalla lucida rappresentazione della difficoltà e della sofferenza nell’affermazione della libertà di scelta come donna rispetto al proprio corpo e al proprio futuro. Peraltro, questo road movie atipico, che configura una breve odissea esistenziale, non è un pamphlet militante femminista anche perché Eliza Hittman pone a freno la deriva didascalica e melodrammatica facendo appello a una chiara vocazione antispettacolare. La forza e l’energia del film risiede nella centralità del ritratto intimo di una giovane donna, di cui non si conosce né interessa il passato, nel momento in cui deve affrontare una prova terribile senza negare sé stessa. In effetti la rappresentazione cruda e realistica dell’ambiente circostante è largamente surrettizia e non indugia quasi mai in dettagli dispersivi, nemmeno durante il soggiorno a New York. Peraltro non sembra che vi sia grande differenza tra la cittadina della Pennsylvania e la metropoli urbana: le peregrinazioni di Autumn e Skylar si snodano tra gli stessi luoghi ordinari e anonimi. Purtroppo non si giunge alla dimensione di un thriller dell’anima, quantunque lo studio di carattere e la descrizione del percorso di consapevolezza della protagonista, tra silenzi ed emozioni trattenute a fatica, siano sinceri ed efficaci e denotino un’empatia mai forzata da parte di Hittman. A partire da una scrittura precisa e compatta Eliza Hittman imposta una narrazione sobria e in gran parte priva di cascami retorici, con una messa in scena rigorosa, di cronaca documentaristica, ricca di immediatezza e spesso felicemente giocata in sottrazione. La descrizione delle due teenager solidali si sviluppa senza tentazioni psicologiste o inutili spiegazioni, mettendo a fuoco abilmente i volti, gli sguardi e le posture dei corpi grazie a una macchina da presa mobile e nervosa che le inquadra costantemente le due protagoniste con un’accorta combinazione di piani di ripresa. Il limite risiede appunto in alcuni stereotipi. A titolo esemplificativo si possono citare sia l’atteggiamento troppo scontato e magnanimo del personale della clinica di New York, sia l’incontro con Jasper (Théodore Pellerin), un giovane ambiguamente disponibile nei confronti delle due ragazze, nei locali del terminal degli autobus. La scena in cui Skilar si apparta con lo sconosciuto, con cui è nata un’improvvisa simpatia, e poi si intravede che lo sta baciando dietro una colonna, viene enfatizzata dal primo piano delle sue mani che si intrecciano con quelle dell’amica, per sottolineare prosaicamente la loro unione e solidarietà anche in quella circostanza, in cui si compenetrano spirito di avventura, incoscienza del pericolo e scelta utilitarista. Anche la scena centrale del film, il teso colloquio tra Autumn e la counselor della clinica, con il prolungato primo piano della protagonista con il viso stravolto dalla tensione lacerante e dalla crescente commozione, orgogliosa e penosa al tempo stesso, è giocata al limite del ricatto emotivo nei confronti dello spettatore.

Synonymes Nadav Lapid

“The Woman Who Ran” di Hong Sang-soo

 

L’Orso d’Argento al miglior regista è stato assegnato al veterano coreano Hong Sang-soo, che nel suo ventiquattresimo lungometraggio Domangchin Yeoja (The Woman Who Ran), di cui è anche sceneggiatore, conferma la sua poetica votata al ritratto esistenziale minimalista, ma vitale e coinvolgente. Hong Sang-soo propone una storia semplice, tutta al femminile, rifuggendo come sempre dalla deriva retorica e didascalica e mantenendo un approccio narrativo ironico e un profilo estetico ben riconoscibile. Non è il suo miglior film perché sconta alcuni limiti nell’impostazione narrativa, ma offre comunque novità interessanti. Come noto il regista ama uno storytelling stratificato e nei suoi film ha spesso raccontato due microstorie diverse che si confrontano e si intrecciano. In questo film le vicende sono tre, con l’aggiunta di sottotrame appena abbozzate e anche di episodi e di temi che si ripetono.

trailer Trailer

La trentenne Gamhee (Kim Min-hee, talentuosa musa di Hong Sang-soo, a cui è legata da una controversa relazione sentimentale), approfitta del fatto che suo marito sia assente, perché impegnato in un viaggio di lavoro, per visitare le amiche che apparentemente non vede da tempo e che abitano in poli residenziali della provincia di Seoul. I tre diversi incontri, due intenzionali e programmati e il terzo fortuito, avvengono il locali chiusi, due appartamenti e un ambiente lavorativo. Diventano l’occasione per lunghe conversazioni in cui si mescolano dettagli sugli ultimi anni delle rispettive esistenze, pettegolezzi sui vicini di casa, suggestioni e opinioni sulla vita e sugli uomini. Tra l’altro emerge che lontano dalla metropoli Seoul, i contatti umani siano più facili e spingano a condividere esperienze e vicissitudini, quantunque i rapporti con i vicini di casa possano essere ambigui e persino conflittuali. Gamhee tiene a precisare che si tratta della prima volta, nel corso di cinque anni, in cui si trova a essere separata dal marito, con cui comunque, a detta sua, la relazione procede bene. Ma nel contempo non appare affatto dispiaciuta o depressa. Al contrario, sfoggiando un nuovo taglio corto di capelli e una messa in piega che, secondo le sue amiche, la rendono più giovane, mostra grande fiducia in sé stessa e un’indole di indipendenza rispetto agli uomini, che critica con giudizi sferzanti e atteggiamenti quasi snobistici. Il primo appuntamento è nell’alloggio di Young-soon (Seo Young-hwa), divorziata di recente, che ha organizzato un barbecue. La donna racconta l’amicizia con una vicina che ha problemi e il dissidio con un altro vicino che detesta i gatti. E poi il discorso verte su un altro inquilino che è in difficoltà dopo che la madre se ne è andata. La seconda amica è Su-young (Song Seon-mi), insegnante di pilates. Riceve Gamhee nell’ appartamento in cui si è trasferita da poco, mostrandosi contenta della nuova sistemazione e raccontando che frequenta un uomo conosciuto in un bar che si è poi rivelato essere un inquilino che abita nell’alloggio sopra il suo. Infine Gamhee si reca nella sede di una impresa cinematografica e si imbatte in Woo-jin (Kim Sae-Biuk), un amica che si scusa con lei per un imprecisato episodio del passato. In quel luogo vi è anche un breve contatto tra Gamhee e un regista cinquantenne (Kwon Hae-hyo, già alter ego di Hong Sang-soo in On the Beach at Night Alone) da cui emerge un disagio reciproco. Durante l’epilogo, che si svolge appunto in una location familiare del cinema di Hong Sang-soo, Gamhee assiste a una proiezione in una saletta privata e forse le immagini che vede assumono un significato simbolico. I film di Hong Sang-soo, tutti diversi l’uno dall’altro, nonostante le molte similarità, le relazioni che li legano tra loro e l’evidente matrice autobiografica che li nutre (i personaggi sono spesso studenti delle scuole di cinema e registi), offrono un approccio ironico e autoironico, a tratti perfino sardonico, e amaro, ma comprensivo, nei confronti dell’irrazionalità dei sentimenti nella Corea di oggi. Propongono abitualmente diverse varianti di drammi esistenziali individuali e di gruppo, con la centralità di una figura femminile e il disagio degli uomini attorno a lei che tentano invano di manipolarla.

La dialettica amorosa, sempre presente nelle storie raccontate, si dipana attraverso incontri, solitudini parallele, doppi e simmetrie, generati dalla disgregazione di affetti e di amori che segna ognuno dei personaggi. E si regge su giochi di incomprensioni, piccole bugie e candide aspettative, che spesso non si realizzano o deludono, conditi da dialoghi brillanti e da situazioni teatrali. È un cinema sempre molto personale, caratterizzato da architetture narrative non semplici, ma accuratamente disposte e sottilmente emozionanti, anche se si presentano fatti apparentemente casuali prodotti da circostanze accidentali, episodi imbarazzanti e piccoli equivoci. È fondato sulla parola, e quindi sulla conversazione tra pochi personaggi che interagiscono tra loro, ed è nutrito da uno humour fresco e, a volte, sarcastico o amaro, e da un classico stile naturalista. Riecheggia il cinema francese della post Nouvelle Vague, con riferimenti a Rohmer, Rivette, Resnais e a Lelouch, e anche quello di Woody Allen, ma è saldamente ancorato a tipologie umane e a contingenze specificamente coreane.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

Hong Sang-soo

 

 

I film di Hong Sang-soo presentano una descrizione divertita e mordace di personaggi fragili, indecisi e moralmente e intellettualmente contraddittori. Offrono deliziosi spunti tragicomici, attraverso l’osservazione dei comportamenti e la presentazione di strani incidenti. Il flusso drammatico mostra la divaricazione emotiva e comportamentale tra uomini e donne. È affidato alle cadenze lente dei personaggi, che si trovano a fare i conti con l’immaturità dei loro sentimenti, e ai loro dialoghi buffi e ingenui o pieni di divagazioni intellettuali, durante convivi in cui mangiano e bevono abbondanti libagioni alcoliche. Ne emerge un’idea della composizione dei contrasti interni alle relazioni attraverso una filosofia di ricerca di momenti di felicità. Relazioni complicate, rapporti che non decollano o che finiscono, infedeltà e incomprensioni attraversano, insieme a nuovi temi introdotti volta per volta, i film più riusciti, realizzati nel corso degli ultimi anni: il pessimistico Woman on the Beach (2006), che evidenzia il relativismo della vita e la fragilità dei rapporti di coppia; il brillante e intelligente Oki’s Movie (2010), centrato sulla sostanziale incapacità a comunicare lealmente i propri sentimenti; il graffiante e soffocante Ha ha ha (2010), in cui pare che la realtà si vendichi di fronte alle omissioni e alle bugie ipocrite dei protagonisti; l’irrisolto The Day He Arrives (2011), che oscilla tra casualità e causalità, fatalità e determinismo; il brillante, romantico e surreale Our Sunhi (2013); il bellissimo e delicato Hill of Freedom (2014), basato sui temi della verità, del tempo e della memoria; il ricercato, intrigante e ricco di sottigliezze retoriche Right Now, Wrong Then (2015); l’ossessivo e misterioso On the Beach at Night Alone (2017; l’umoristico The Day After (2017), con al centro le menzogne e le aspettative deluse; il raffinato e malinconico Grass (2018), che orchestra un minuetto di coppie di personaggi anonimi; il malinconico, consapevole, ma anche ilare Gangbyun Hotel (2018), che articola una dialettica più alta e decisiva, quella tra la vita e la morte, in un percorso narrativo che tocca la contemplazione della bellezza e della natura, la poesia e il sentimento dell’esaurimento e della perdita. In queste opere, molte delle quali realizzate in un prezioso bianco e nero, la narrazione procede attraverso interessanti flashback, secondo uno stile visivo volutamente non descrittivo. La messa in scena è scarna, ma anche sofisticata, con una composizione accurata delle immagini data da una combinazione magistrale di inquadrature fisse prolungate, a varia distanza e simmetriche, zoom e close up, alternati a piani-sequenza, tipiche panoramiche a schiaffo e assestamenti visivi continui. The Woman Who Ran conferma largamente numerosi elementi stilistici essenziali del cinema di Hong Sang-soo, mostrando una costruzione drammatica fluida, armoniosa ed efficace. È permeato dall’usuale originale senso di intimità e dal vivace humour presente nei film precedenti e, attraverso le varie conversazioni, delinea le specifiche problematiche dei personaggi, interpretati con grande naturalezza dalle attrici protagoniste. È un film interamente centrato su Gamhee, una figura di donna risoluta e determinata nella volontà di occupare i propri spazi e di gestire i propri tempi. Quantunque non manifesti una chiara vocazione “femminista” di separatezza, sembra considerare il mondo maschile come qualcosa di alieno e privo di appeal. Tuttavia la prospettiva del film appare ambivalente. Le conversazioni e i comportamenti dei diversi personaggi femminili ne evidenziano sia l’acume e l’intelligenza sia un certo cinismo e la fastidiosa presunzione. I personaggi maschili, al contrario, sono del tutto marginali, sfuggenti, inquadrati brevemente di spalle o di lato, privi di significativa personalità e sostanzialmente inopportuni e antipatici. Uno è il vicino sconosciuto che odia i gatti. Un altro è il giovane poeta che perseguita Su-young. Poi vi è il regista che incontra Gamhee: un uomo che pare abbia intrattenuta una movimentata relazione con lei e che verosimilmente è l’alter ego dello stesso Hong Sang-soo. E infine abbiamo lo scrittore famoso, marito di Gamhee, che non compare mai: una presenza fantasmatica. Questa impostazione narrativa evidenzia una significativa cesura rispetto al cinema precedente di Hong Sang-soo, centrato su maschi e femmine legati da relazioni complicate e contraddittorie, ma, comunque, accomunati da una filosofia positiva che tende all’incontro e alla ricerca di momenti di felicità attraverso piacevoli esperienze conviviali. I film citati si snodano tra bar, ristoranti e hotel e mostrano peregrinazioni e frequentazioni in pubblico. Al contrario in The Woman Who Ran i personaggi si incontrano e dialogano in ambiente domestico, con l’eccezione dell’ultimo scenario che è quello degli uffici di una società di produzione cinematografica dove Gamhee si reca per visionare un film. Non si consumano bevande alcoliche e lo stato di ubriachezza è solo evocato in un paio di occasioni. In aggiunta ritrova importanza, come in Gangbyun Hotel, il tema della natura attraverso vari elementi: la campagna autunnale, che circonda la l’agglomerato urbanistico dove si svolge il film; il pollaio in cui il gallo che becca le galline; il gatto sornione.

E paesaggio e animali diventano anche temi di conversazione che evidenziano la scelta animalista delle due amiche di Gamhee. La regia appare semplificata, con scarsi movimenti di macchina e zoom, e costruita con elementi ripetitivi: scene, immagini e riferimenti che si rincorrono e si rispecchiano tra loro. In effetti, a proposito di risonanze, The Woman Who Ran appare fortemente relazionato con On the Beach at Night Alone, anch’esso presentato in concorso alla Berlinale nel 1917 e premiato con il Silver Bear for Best Actress a Kim Min-hee, al suo esordio come protagonista in un film di Hong Sang-soo. In quel film una nota attrice, delusa da una precedente relazione con un uomo sposato, si tormenta rispetto al significato dell'amore, giungendo a ubriacarsi e a disperarsi, con eccessi melodrammatici. Al contrario, in quest’ultimo film, Gamhee, la protagonista, è una donna sicura di sé, cosciente delle proprie qualità, enigmatica e un poco strafottente e per nulla preoccupata rispetto alle sorti del proprio partner maschile.

 

Grâce à Dieu Francois Ozon

“Never Rarely Sometimes Always” di Eliza Hittman

Trailer

trailer

Riserviamo invece solo poche note agli altri film premiati, che a nostro giudizio sono più problematici o meno riusciti. Undine, nono film del tedesco Christian Petzold, alla cui protagonista, Paula Beer, è stato attribuito l’Orso d’Argento alla miglior attrice, trasforma la leggenda di Ondina, bellissima sirena acquatica della letteratura romantica germanica, in una fiaba elegante, ma molto pasticciata e contraddittoria: tragico amour fou nella Berlino di oggi, tra eros e thanatos, identità precarie e mutevoli, ossessioni e fantasmi, iperrealismo e grottesco mito soprannaturale. Volevo solo nascondermi, quarto lungometraggio di Giorgio Diritti, al cui protagonista, il virtuoso Elio Germano (purtroppo spinto alla mimesi assoluta, con monotona, e a tratti caricaturale, reiterazione espressiva), è stato assegnato l’Orso d’Argento al miglior attore, è un biopic che racconta la tragica vicenda umana e artistica del pittore naïf Antonio Ligabue (1899 - 1965). È un affresco - presepe d’epoca, con magnifiche location emiliane, ma privo di vera forza drammatica perché prigioniero di una narrazione sfilacciata, frammentaria e banalmente illustrativa, di una storia ben più seria e complessa. Favolacce, opera seconda dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, che hanno ottenuto l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura, è una tragicommedia corale, ambientata in un comune della periferia romana, con pretese sia di racconto di formazione adolescenziale sia di ritratto politicamente scorretto del disagio esistenziale e sociale contemporaneo. Purtroppo abbondano gli stereotipi grotteschi, tra personaggi mediocri e caricaturali, subcultura qualunquista, disvalori e alienazione incosciente, mentre l’incerta e confusa narrazione episodica, con rabbia e violenza sotto traccia, scivola in un epilogo sensazionalista tinto di horror. DAU. Natasha, dei russi Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel, al cui direttore della fotografia Jürgen Jürges è stato attribuito l’Orso d’Argento per un magistrale contributo artistico, è la prima porzione - storia tratta dal mastodontico progetto di Khrzhanovskiy, in corso di realizzazione da 15 anni (con già 700 ore di girato), di simulazione iperrealista del funzionamento di un istituto scientifico di ricerca scientifica statale sovietico, fucina per un trentennio delle teorie e delle strategie del regime autoritario nell’epoca di Stalin e dopo di lui. Si tratta di un elegante e prolisso ritratto di una cameriera quarantenne del ristorante dell’istituto, volitiva, ma frustrata e autodistruttiva, che, durante gli anni ’50, è sottoposta a interrogatori e torture da parte dei servizi segreti affinché denunci uno scienziato francese ospite in Russia. Effacer l’historique, nono film della coppia franco - belga Benoît Delépine e Gustave Kervern, Orso d‘Argento del 70.Berlinale, è una commedia nera, furbesca e politicamente scorretta, che racconta le disavventure di tre persone qualunque (presunti esemplari di cittadino contemporaneo) che abitano in un’anonima periferia e, essendo accomunate dal fatto di essere vittime impotenti dell’invasività nella loro vita dei social network di cui sono utenti- dipendenti, si alleano per vendicarsi contro la tecnologia in un tripudio di frenesia anarcoide, malinconica follia ed episodi surreali. È un film poco originale, prolissa, sgangherata e palesa una comicità grossolana e piena di clichés triti e ritriti.
Segnaliamo infine che la giuria ha invece escluso dai premi due film di ottima qualità. Le sel des larmes (The Salt of Tears), ventiseiesimo lungometraggio del veterano Philippe Garrel, è una deliziosa commedia drammatica, ambientata a Parigi e in provincia. Riunisce due tra i temi usuali del cinema di Garrel: la passione amorosa incostante, in precario equilibrio tra desiderio e incapacità / impossibilità di gestire e di comprendere i sentimenti e le rispettive pulsioni ed esigenze individuali, e, in forma subordinata, il rapporto tra un figlio ventenne egocentrico, seduttore, infedele e cinico e l’anziano genitore saggio e protettivo. Luc si trova a Parigi per sostenere l’esame d’ingresso alla prestigiosa scuola di ebanisteria Boulle. Conosce Djemila a una fermata dell’autobus. La giovane si innamora sinceramente, ma la storia d’amore dura solo due giorni. Luc riparte, torna alla casa paterna e interrompe ogni contatto. Nel frattempo ritrova Geneviève, la partner dell’epoca del liceo e instaura una relazione con lei nell’arco di qualche mese. Avendo superato l’esame si stabilisce definitivamente a Parigi, inizia la scuola e ignora il padre quando quest’ultimo gli comunica che la gentile Geneviève è rimasta incinta, e successivamente ha abortito. Ha conosciuto l’estroversa infermiera Betsy. I due si amano e convivono, ma ben presto la giovane donna propone un ménage à trois che comprende anche il taciturno Paco, suo collega e amico di lunga data. Luc accetta la situazione e si adatta. Philippe Garrel elabora da oltre 50 anni un cinema di interiorità poetica, scandagliando affetti (im)possibili, disagi, solitudini, passioni frustrate ed emozioni rivelate. L’amore fra l’uomo e la donna, tormentato, insicuro e aleatorio, è il tema ricorrente e ossessivo dei suoi film, da cui emerge da sempre l’idolatria del femminino. Citiamo alcuni dei suoi film più noti e riusciti : Les baisers de secours (1988); J’entends plus la guitare (1991) ; Les amants réguliers (2005); Un été brulant (2011); La jalousie (2013); L’ombre des femmes (2015); L’amant d’un jour (2017). L’immaginario di Garrel è quello tipico degli anni ’70 del secolo scorso, un’epoca in cui esprimere il femminile significava obbligatoriamente sublimarlo. In Le sel des larmes confronta la propria poetica con il modo di vivere e di amare della nuova generazione: i millennials. Offre un mosaico di comportamenti e di sentimenti non scontato né didascalico, fragile e problematico, ma oltremodo efficace e intrigante, nonostante un epilogo meno riuscito. Racconta un’educazione sentimentale che si sostanzia in un gioco di va e vieni, tra interni ed esterni, senza veri climax emotivi: un itinerario che, dopo giravolte e “sofferenze”, si risolve in una duplice amara consapevolezza da parte del protagonista. Luc deve prendere atto del fallimento delle sue relazioni amorose a causa delle crudeltà che ha inflitto e che infine ha subito e della ingiustificabile insensibilità che ha mostrato nei confronti di suo padre, non rimediabile perché nel frattempo il genitore è deceduto. Il meccanismo narrativo di questo feuilleton contemporaneo con sapore antico, è magnificamente fluido e mai convenzionale, senza censure moralistiche rispetto a comportamenti discutibili e poco razionali dei personaggi. La messa in scena comprende l’uso magistrale del fuoricampo, gli intermezzi buffi e malinconici della voce narrante del protagonista e la lucida impaginazione delle immagini frutto della straordinaria fotografia di Renato Berta.
Rizi (Days), dodicesimo lungometraggio, scritto e diretto dal taiwanese d’adozione Tsai Ming-liang, è un’opera minimalista molto controllata e sottilmente emozionante, affascinante e vagamente narcisista al tempo stesso. Trae spunto da un substrato autobiografico: la storia della conoscenza e dell’amicizia tra il regista e Anong Houngheuangsy, nuova presenza nell’immaginario cinematografico di Tsai Ming-liang. La storia di un breve incontro tra anime solitarie è raccontata con una lenta intensità attraverso l’osservazione fisica, intima e poetica, di due soli personaggi. Il cinquantenne Kang (Lee Kang-sheng, taiwanese e attore feticcio di Tsai Ming-liang, presente in tutti i suoi film) è un benestante: vive solo in una grande casa a Taiwan. Porta un collare ortopedico e si muove con lentezza e cautela: soffre a causa di un persistente dolore al collo di eziologia sconosciuta, che spesso di irradia stranamente a tutto il tronco e diventa molto fastidioso. Appare stanco e depresso e trova sollievo solo quando fa il bagno, immobile nell’acqua della vasca. Trascorre molto tempo ad osservare, attraverso un grande finestrone, le cime degli alberi della foresta che ondeggiano al vento durante la pioggia. Il ventenne Non (Anong Houngheuangsy, immigrato dal Laos in Thailandia, dove lavorava come muratore, ora attore esordiente scoperto dal regista) è un umile lavoratore. Vive a Bangkok in un piccolo appartamento. Porta avanti la sua attività di artigiano con vari materiali e, quotidianamente, prepara con metodica precisione vari piatti tradizionali della cucina del suo luogo natio. Un giorno i due si incontrano in una stanza d’albergo dove si è stabilito Kang da quando è arrivato in Thailandia. Non riescono a comunicare tra loro a causa delle differenze linguistiche. Tuttavia quello spazio anonimo consente loro di uscire dai propri ruoli e di esplorare i loro corpi e le reciproche solitudini. Non pratica un massaggio al collo di Kang. Poi gli pratica un body massage erotico che sconfina nel rapporto sessuale mercenario. Al momento del comiato Kang regala a Non un piccolo carillon. L’epilogo notturno vede Non seduto su una panchina in una strada anonima. Estrae il carillon dalla tasca, lo osserva a lungo, poi solleva il coperchio e ascolta la musica: è “Eternally”, il tema conduttore di Limelight (1952), di Charlie Chaplin. Quando finisce si alza e se ne va. Tsai Ming-liang, che ha esordito con Xiao hai (Boys) (1991), ha realizzato, nel corso della sua carriera un percorso di progressivo distacco dal cinema narrativo, riducendo lo storylelling sempre più a pochi elementi essenziali, con una drammaticità e uno stile del tutto originali. Tra i suoi film più significativi si possono citare: Vive l’amour (1994), The River (1997), The Hole (1998), What Time Is It Over There (2001), Goodbye Dragon Inn (2003), The Wayward Cloud (2005), I Don’t Want to Sleep Alone (2006) e Stray Dogs (2013). Il suo cinema si nutre di ricorrenti ossessioni ed espressioni: il flusso e la stagnazione dell’acqua; le infermità infettive; la quasi assenza dell’interazione verbale tra i personaggi; il pianto come momento di autocommiserazione e, al tempo stesso, di liberazione; i sentimenti d’amore incerti nella loro espressione; i desideri perversi; il sesso non tradizionale. Crea un’atmosfera sensoriale e simbolica grazie a precise connotazioni: una predilezione per le atmosfere oscure, poco illuminate da luci metalliche; movimenti impercettibili e progressivi; una durata lenta ed ipnotica che si nutre di sospensioni; la deformazione onirica della realtà; un’estetica naturalista raffinata, con ampio uso dei piani sequenza e di statiche e suggestive inquadrature fisse frontali spesso oltremodo prolungate per vari minuti; l’uso di intermezzi musicali costituiti da vecchie canzoni e melodie che stimolano fantasia ed emozioni. Esprime una visione del mondo dove predominano l’isolamento, la solitudine e l’abbandono e dove i vincoli tra gli individui nascono da rapporti strettamente fisici. E vuole dare coscienza allo spettatore del trascorrere del tempo, con le sue lievi alterazioni e i suoi ritmi. I film presentano una trama destrutturata, la rarefazione drammatica e un equilibrio dinamico, tra solitudine, voyeurismo, erotismo, humour atipico, sottintesi e misteri. I personaggi manifestano, oltre alla loro inadattabilità alla crudeltà della vita, anche comportamenti romantici e solidali. Days segue con sottile partecipazione e pacatezza lo svolgimento in parallelo di due esistenze che si svolgono a contatto con elementi e materiali naturali: l’acqua, gli alberi, i cibi, il legno, la stoffa. E introduce una novità rispetto all’universo limitato alla lower class dei film precedenti: la dialettica tra due personaggi agli opposti nella gerarchia sociale. Tsai Ming-liang recupera alcuni temi dei suoi primi film con un lavoro ammirevole, ma anche un poco ripetitivo, di contaminazione e di sintesi. L’incontro tra i due uomini fa pensare a I Don’t Want to Sleep Alone (2006), ambientato a Kuala Lumpur, dove, in un contesto diverso marcato da temi politici e sociali, quali la divisione etnica, l’immigrazione e la segregazione, Hsiao-Kang (Lee Kang-sheng), un senzatetto cinese, aggredito, picchiato, ferito e derubato, viene soccorso ed accudito da Rawang, un immigrato del Bangladesh che vive con alcuni compatrioti in un edificio abbandonato. Nel film la voglia di non dormire da soli e di attendere qualcuno a letto che lega i due protagonisti è in fondo similare alla pulsione che innesca la relazione anche sessuale tra Kang e Non nella camera d’albergo. E ancora, il personaggio di Kang, tormentato dal dolore al collo, si riflette in un altro personaggio, chiamato nuovamente Hsiao-Kang: il protagonista di The River (1997) Anche lui è afflitto da un dolore al collo che peggiora dopo i vari trattamenti: il dolore è fisico, ma forse è anche la somatizzazione di un disagio psicologico e spirituale. E l’attore è lo stesso, Lee Kang-sheng, a distanza di oltre vent’anni. La relazione omosessuale tra Kang, l’uomo più anziano, e Non, il più giovane, rimanda alla rappresentazione dell’ambiguo desiderio che lega tra padre e figlio nello stesso The River. Infine l’epilogo del film con la prolungata inquadratura di Non seduto sulla panchina ricorda il celebre epilogo di Vive l’amour (1994), in cui la protagonista May Lin (Yang Kuei-Mei) è seduta sola e immobile e dopo vari minuti inizia a piangere. Per altro il pathos generato dalla solitudine presente nelle due scene appare ben diverso. E in fondo, il rapporto tra Kang e Non rispecchia la storia della relazione di amicizia tra Tsai Ming-liang e Anong Houngheuangsy, che è un fatto reale. Days è stato realizzato dal regista dopo un periodo di distanziamento dal cinema in quanto tale per dedicarsi a realizzare videoinstallazioni e progetti di video art, con molte collaborazioni con musei di tutto il mondo. Non è basato su una sceneggiatura e la narrazione, esile e del tutto priva di climax, lo colloca idealmente e stilisticamente in continuità con il precedente e ancor più radicale Journey to the West (2014). La messa in scena è assolutamente pregevole: ogni piano e ogni inquadratura sono concepiti e studiati in funzione del carattere contemplativo del film, mentre sono del tutto assenti sia i dialoghi sia qualsiasi commento musicale d’accompagnamento, ad eccezione del citato tema emesso dal carillon.

 

 

 

70. BERLIN FILM FESTIVAL I 70. Berlinale 2020: vince l’altro cinema iraniano ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2020
70. BERLIN FILM FESTIVAL I i migliori film  delle sezioni Encounters, Berlinale Special, Panorama e Forum ... I BY GIOVANNI OTTONE I 2020
 

70. BERLIN FILM FESTIVAL

20 / 02 - 01 / 03 / 2020, Berlin

Berlinale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

link

locarno
px
Home Festival Reviews Film Reviews Festival Pearls Short Reviews Interviews Portraits Essays Archives Impressum Contact
    Film Directors Festival Pearls Short Directors           Newsletter
    Film Original Titles Festival Pearl Short Film Original Titles           FaceBook
    Film English Titles Festival Pearl Short Film English Titles           Blog
                   
                   
Interference - 18, rue Budé - 75004 Paris - France - Tel : +33 (0) 1 40 46 92 25 - +33 (0) 6 84 40 84 38 -