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pxrouge FESTIVAL REVIEWS 71. Berlinale 2021: vince il cinema romeno Novità  da Europa orientale e AsiaI BY GIOVANNI OTTONE I 2021

71. Berlinale 2021 : 

I migliori film delle sezioni Berlinale Special, Encounters, Panorama e Forum

  

by Giovanni Ottone

Inntroduction

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Section Berlinale Special

1) The Mauritanian (U K, 2021, 6° film, W. P. Canada 12 / 02 / 2021), di Kevin MacDonald. Efficace dramma esistenziale e political thriller ispirato da una storia vera. È basato sul romanzo memoir, nonché best seller, "Guantánamo Diary" di Mohamedou Ould Slahi, un trentenne detenuto dagli USA, senza alcun preciso capo d’accusa, nella prigione di Guantánamo, dal 2002 al 2016. Fonde con perizia due generi, il prison movie e il legal thriller, e si avvale di un buon cast di attori, ma sconta alcuni aspetti rocamboleschi e clichés del politicamente corretto.

2) Courage (Germany, w. p., 2021, 1° documentary), di Aliaksei Paluyan (Belarusian). Convincente docu – drama che ricostruisce il clima delle elezioni presidenziali fraudolente nell’agosto 2020 e le successive massicce proteste contro il Presidente autocrate Aljaksandr Lukaš?nka, seguite da una durissima reporessione. I protagonisti sono 3 attori di teatro, Maryna, Pavel and Denis, che, 15 anni fa abbandonarono il Minsk State Theatre e aderirirono al nuovo Belarus Free Theatre.

3) Per Lucio (For Lucio) (Italy, w. p., 2021, 4° documentario), 79’, di Pietro Marcello Un magnifico documentario: diverso ed emozionante. Propone il ritratto di Lucio Dalla (1943 - 2012), il cantautore bolognese irriverente e poetico, vicino ai diseredati. Un artista unico, caparbio autodidatta e musicista multiforme e raffinato, tra jazz, beat, pop, musica melodica e lirica. Un istrione provocatorio e tagliente, ma anche un umanista radicale, intimamente inquieto e dolce. Lucio Dalla ha saputo raccontare drammi, sogni, miti e sentimenti della gente comune, calandosi in una maniera molto personale negli avvenimenti e nel tessuto sociale del suo Paese, dagli anni ’60 fino al nuovo millennio. Marcello evita la fredda cronaca di una carriera straordinaria. Preferisce ricostruisce episodi biografici ed evocare efficacemente l’immaginario, la disposizione esistenziale e l’ispirazione di Lucio a lungo fecondata dal felice incontro con il poeta Roberto Roversi. Utilizza, con molta originalità, footage di vari archivi e ripropone diverse canzoni indimenticabili: notissime, come “4 marzo 1943”, “Piazza Grande” e “Nuvolari” o meno ricordate, come “L’operaio Gerolamo” e “ Intervista con l’avvocato tra le altre”. Il filo conduttore di questo viaggio tra privato e pubblico è la testimonianza di Umberto Righi, detto Tobia, storico manager, migliore amico e confidente di Lucio, che, nell’epilogo, conversa anche con un amico d’infanzia di Dalla, il filosofo Stefano Bonaga, evocando storie e luoghi di una città particolarissima, Bologna, e di un’epopea indimenticabile. .

4) Limbo (Hong Kong / People’s Republic of China, w. p., 2021,18° film), 118’, di Cheang Soi Un thriller poliziesco tesissimo, disperato ed esteticamente ricercato. Hong Kong 2017, tra atmosfere plumbee e notturne e squarci di pallida luce. Due poliziotti, Cham Lau, un detective veterano, duro e disincantato, che forza le regole, e Will Ren, un giovane graduato dell’accademia di polizia inesperto e vagamente idealista, danno la caccia a un serial killer sconosciuto, un sospetto feticista autore di ripetuti e brutali femminicidi, con successivo smembramento dei cadaveri. Dopo una serie di insuccessi e di incidenti Cham Lau decide di utilizzare come esca Wong To, una criminale trentenne che conosce tutti i bassifondi frequentati da drogati e drop out. Molti anni prima la donna aveva causato un grave incidente stradale, provocando la tetra paresi della moglie e le morte del figlio di otto anni di Cham Lao e ora cerca una qualche espiazione. Ma purtroppo è imprevedibile e poco affidabile. Cheang Soi maneggia con sicurezza i rituali dell’azione investigativa e li intreccia con la descrizione delle gravi problematiche esistenziali dei protagonisti, spinti da una tenace ostinazione a sopravvivere. Non rinuncia a sfidare i limiti degli eccessi di violenza, ma evita il narcisismo, dosa con cura la suspense e propone uno strabiliante, prolungato e insistito show down finale, impreziosito dalle interpretazioni degli attori. L’incalzante messa in scena, con mirabili accelerazioni e pregnanti close up, si avvale dell’elegante monocromia in bianco e nero, messa in risalto dalla splendida fotografia di Cheng Siu-Keung, e di un brillante editing, curato da David Richardson.

Section Encounters

5) Vj  (Taste) (Vietnam / Singapore / France / Thailand / Germany / Taiwan, w. p., 2021, 1° film), di Lê B?o. Special Jury Award. Un dramma meditativo insolito, apparentemente provocatorio, ma variamente criptico, tra promesse tradite, stimmate dell’emigrazione, isolamento, promiscuità sessuale e volontà di sopravvivenza . Eppure la trama narrativa quasi inesistente, la messa in scena molto stilizzata, il ritmo lento e dilatato, la quasi totale assenza di dialoghi e l’ambientazione quasi totalmente in interni molto spartani e claustrofobici lo rendono abbastanza affascinante. Bassley, un calciatore nigeriano trentenne, emigrato in Vietnam per giocare in una squadra, perde il posto e dunque la sua capacità di sostentamento a causa di un infortunio occorsogli a una gamba. Si ritrova così a dividere cibo, spazio e quant’altro con quattro donne, più anziane di lui, con corpi imperfetti e volti segnati, in una casa nei bassifondi della città di Ho Chi Minh, un tempo nota come Saigon. Lê B?o, coadiuvato dalla straordinaria otografia di Vinh Phúc Nguy?n, costruisce veri e propri tableaux vivants freddi suggestivi, senza soluzione di continuità. Ricorda in qualche modo il cinema di Tsai Ming – liang. 6) As I Want (Egypt / France / Norway / Palestine, w. p., 2021, 1° film), 88’, di Samaher Alqadi (Palestininese) Un ritratto molto realistico e incisivo della mobilitazione di attiviste coscienti e battagliere, avvenuta dopo una serie di odiosi e clamorosi casi di molestie e violenze sessuali subite da diverse donne presenti alla manifestazione di commemorazione del secondo anniversario della rivoluzione democratica egiziana, a Il Cairo, in piazza Tahrir, il 25 gennaio 2013. Dopo lo stupro della sua migliore amica, Samaher Alqadi, di origine palestinese, è spinta a raccontare le donne che organizzano corsi di autodifesa e le brigate di vigilanza antistupro. Poi ripropone anche immagini e testimonianze della grande manifestazione di protesta del 30 giugno 2013 contro la politica integralista del Presidente Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana e delle successive, degli ultimi anni, contro il regime liberticida del Presidente generale Al Sisi. E intreccia la denuncia con una riflessione intima sulla propria condizione femminile, dalle memorie dell’infanzia fino alla gravidanza. Ne risulta un documentario cruciale, vivo e coraggioso, che esplora barriere e ostacoli alle libertà individuali e all’emancipazione collettiva, soprattutto delle donne, nelle società arabe.

Section Panorama

7) Okul Tirasi (Brother's Keeper) (Turkey / Romania, w. p., 4° film), 85’, di Ferit Karahan. FIPRESCI Award: Best Film of Panorama Un interessante dramma - thriller che intreccia la denuncia politica del fallimento di un sistema educativo coercitivo con la disanima del disagio giovanile. È ambientato tra le montagne dell’Anatolia in un microcosmo: un collegio maschile, gestito con ottuso autoritarismo. Nella scuola, frequentata in maggioranza da adolescenti kurdi, provenienti dai villaggi vicini, vige una rigida disciplina, con regole inappellabili, fatte rispettare con grande zelo da giovani monitori e insegnanti turchi animati da una forte convinzione di superiorità derivante da un deleterio nazionalismo. Ogni trasgressione viene perseguita e, per stroncare la vivacità dei ragazzi, non mancano punizioni assurde, anche corporali, con lo scopo di intimorirli e di umiliarli. Una mattina, durante un gelido inverno, due dodicenni, Yusuf (Samet Yildiz) e Memo (Nurullah Alaca), sorpresi a scherzare durante l’orario in cui gli allievi devono effettuare l’unica doccia settimanale concessa, vengono obbligati a usare solo l’acqua gelida. La notte successiva Memo inizia a sentirsi male e il mattino seguente, essendo stato ritrovato in stato di parziale incoscienza, viene trasportato in infermeria. Da quel momento, mentre la condizione del ragazzo non migliora, si dipana un drammatico confronto, tra il preside (Mahir Ipek), poco sensibile e molto irritato, gli insegnanti, Yusuf e altri ragazzi, per stabilire cosa sia realmente accaduto durante la notte. Emergono reticenze, bugie, scarico di responsabilità, preoccupazioni meschine e, infine, si scoprono piccole ruberie e intrallazzi. Nel frattempo il medico della scuola è introvabile e il riscaldamento ha cessato di funzionare. Una copiosa nevicata e le incongruenze dell’apparato burocratico ritardano l’arrivo dell’ambulanza. Infine viene rivelata una dolorosa verità che capovolge in parte i fatti e i ruoli dei personaggi, senza portare ad alcun cambiamento del contesto. Ferit Karahan reinterpreta i canoni dei generi e assicura un’efficace tensione narrativa e una convincente caratterizzazione dei personaggi, evitando le trappole di una facile deriva didascalica.

8) Die Welt wird eine andere sein (Copilot) (Germany / France, w. p., 2021, 3° film), 118’, di Anne Zohra Berrached. Un convincente dramma di formazione. Racconta un’intensa storia d’amore, scandita in cinque fasi temporali: una vicenda che si trasforma in un incubo quando è investita dalla tragedia del terrorismo islamico. Ad Amburgo, a metà degli anni ’90, due compagni di scuola diciassettenni, Asli (Canan Kir), di origine turca, e Saeed (Roger Azar), di origine libanese, si innamorano: sono brillanti, felici e impazienti. Nonostante l’opposizione alla relazione da parte di sua madre vedova, Asli riesce ad andare a vivere da sola. È soggiogata dall’irruenza, dalla fiducia in sé stesso, dal carisma intellettuale e dal fascino di Saeed. Dopo un paio d’anni si sposano in una moschea: solo loro due, senza la presenza di parenti e amici, promettendosi di stare sempre insieme e di non rivelare mai i loro segreti. Tuttavia, mentre la giovane donna continua gli studi e diventa una ricercatrice molto stimata in un laboratorio medico, suo marito frequenta attivamente una moschea di tendenza integralista e finisce per abbandonare sia gli studi sia la gestione di un ristorante intrapresa con il suo amico Fares (Nicolas Chaoui). Saeed intraprende un percorso di conversione al fanatismo religioso, dichiara il suo odio antisemita e inizia a interferire con lo stile di vita della moglie: pretende che smetta di fumare e si irrita perché frequenta amichevolmente un collega di lavoro. Asli scopre i traffici di Saeed con un gruppo di estremisti islamici e vorrebbe separarsi da lui. Tuttavia si lascia convincere quando il marito le propone di intraprendere un viaggio a Beirut per farle conoscere la propria famiglia. Nel frattempo parte prima di lei in gran segreto. Asli giunge a Beirut, e viene accolta amichevolmente dalla famiglia benestante del marito, ma Saeed non si presenta: si scopre che si trova in Yemen. Dopo circa un anno Saeed si ripresenta ad Amburgo. Si dichiara pentito e annuncia di volere diventare pilota di aerei. Asli vorrebbe scacciarlo, ma alla fine lo riaccoglie perché, nonostante tutto, ne è ancora invaghita e vuole fidarsi di lui. Poi Saeed si reca in Florida e inizia un corso per conseguire la licenza di pilota. Asli va a visitarlo e tutto sembra normale, compresa l’ebbrezza di un volo insieme. La donna torna in Germania e un mattino assiste alle sconvolgimenti immagini televisive dell’attentato dell’11 settembre 2001. Improvvisamente capisce la terribile verità. Anne Zohra Berrached propone un dramma privato, con una fatale deriva pubblica, in cui si intrecciano differenze culturali, amore, fede, fiducia, bugie e terribile delusione. La narrazione del contesto giovanile ed etnico e della frattura culturale presente nella società tedesca è del tutto credibile e ricca di sfaccettature. In aggiunta si segnala una precisa caratterizzazione psicologica dei personaggi che deriva anche da un’efficace direzione della coppia di talentuosi giovani attori protagonisti.

9) Yuko No Tenbin (A Balance) (Japan, e. p., 2020, 2° film, W. P. at PINGYAO INT. F. F. 2020, in China), di Yujiro Harumoto. Un dramma psicologico complesso e intrigante, ricco di colpi di scena e genuinamente malinconico. Prospetta un‘incalzante disanima di comportamenti controproducenti di fronte a un caso di violenza sessuale. Yuko Kinoshita (Kumi Takiuchi) è una trentacinquenne single, figlia di Masashi (Ken Mitsuishi), l’anziano docente proprietario di una piccola scuola di recupero collocata in una città di provincia. È una regista di documentari, a capo di una piccolissima troupe, legata da un contratto con un’emittente televisiva locale. Essendo molto professionale, è decisa a realizzare un nuovo progetto, senza subire la censura dello staff direttivo della stazione televisiva. Si tratta di un’inchiesta che racconta i veri dettagli di uno scandalo reso pubblico, riguardante la relazione sessuale tra Hiromi, una studentessa minorenne, e il suo insegnante di musica, conclusosi con un doppio suicidio, quello dell’adolescente, vittima di bullismo, e quello del docente, perseguitato dalla vergogna. Pur non essendo mai stata realmente apprezzata da suo padre, in caso di necessità Yuko si presta ad aiutarlo, svolgendo i compiti di tutor degli studenti della scuola. Poi un giorno scopre casualmente che anche suo padre ha abusato una studentessa sedicenne, Mei (Yuumi Kawai), appartenente a una famiglia in difficoltà economiche, mettendola incinta. Yuko entra in crisi quando suo padre ammette con imbarazzo la sua colpa. È lacerata dal dilemma tra la fedeltà alla propria etica di coerenza nella difesa della verità e dell’imparzialità e la scelta opposta, di occultare la violenza commessa da suo padre per evitare la pubblicità, la condanna sociale e altre conseguenze, a carico di Masashi e, anche, di Mei. Quindi contatta un amico medico e lo convince a procurare il farmaco necessario per l’interruzione della gravidanza di Mei, raccontandogli che la giovane è stata violentata dal proprio genitore e che non vuole coinvolgere la polizia. Successivamente si dedica ad aiutare Mei negli studi e riscuote la riconoscenza di Tetsuya (Masahiro Umeda), il padre della ragazza, un uomo poco sensibile e litigioso che, comunque, è all’oscuro della situazione della figlia. Nel frattempo Yuko, insieme a Tomiyama (Yohta Kawase), il suo fedele produttore, sta gestendo l’edizione finale del suo documentario. La situazione si complica quando, grazie a nuove interviste ai familiari dei due suicidi, apprende particolari che stravolgono la verità dei fatti ed entra in conflitto con la direzione della stazione televisiva che vorrebbe manipolare la ricostruzione oggettiva della storia effettuando un re - edit e scaricando la colpa e la responsabilità sull’istituto musicale frequentato da Hiromi. Nell’epilogo si assiste al doppio fallimento di Yuko: a livello professionale e nel tentativo di gestire le relazioni con suo padre Masashi e con Mei e Tesuya. Yujiro Harumoto costruisce una narrazione molto articolata, evitando la deriva didascalica ed esplorando con sensibilità il profilo psicologico dei personaggi. In particolare riesce a descrivere con incisività il complesso travaglio di Yuko, tra crisi di coscienza, tentativo fallimentare di proteggere sia l’autore, suo padre, sia la vittima della violenza, la studentessa Mei, e contemporanea strenua difesa dell’integrità del proprio lavoro di documentarista. E sullo sfondo emerge con forza una precisa configurazione di una società moderna in cui il timore della vergogna e del disonore condizionano ancora fortemente la vita e l’operato delle persone.

10) Le monde après nous (The World After Us) (France, w. p., 2021, 1° film), di Louda Ben Salah-Cazanas. Un romanzo di formazione agrodolce e simpatico: un dramma romantico con spunti comici. Labidi (Aurélien Gabrielli), ventenne di origini tunisine, sognatore, appassionato e disponibile a rischiare, è nato e cresciuto a Lione. I suoi genitori, la madre immigrata dal nord Africa (Saadia Bentaïeb) e il padre francese (Jacques Nolot), gestiscono un modesto caffè, sono orgogliosi di avere un figlio che studia, lo trattano con apprensiva bonarietà e lo aiutano come possono. Da tempo si è trasferito a Parigi dove ha recentemente terminato gli studi superiori di letteratura e, essendo squattrinato, abita in un angusto monolocale dividendo l’unico letto disponibile con Alekseï (Léon Cunha Da Costa), un coetaneo corpulento, semplice e maldestro, che lavora di notte come facchino tuttofare. Poi Labidi vince un concorso per racconti brevi. Guidato da un abile agente che gli ha dato fiducia, ottiene che il suo romanzo di esordio, dedicato alla guerra d'Algeria, sia opzionato da una solida casa editrice sulla base della presentazione dei primi tre capitoli. Il contratto firmato lo impegna a presentare il resto del manoscritto entro sei mesi. Durante una visita ai genitori, nota Elisa (Louise Chevillotte), un’aspirante attrice che ha un paio d’anni più di lui ed è molto attraente e volitiva. In breve i due si innamorano e iniziano a viaggiare per incontrarsi. Dopo qualche tempo la giovane accetta di trasferirsi a Parigi, dove può continuare i suoi studi. In effetti per convincerla Labidi ha affittato un appartamento cnfortevole, pur sapendo che pagare regolarmente la pigione non è facile. Dopo l’iniziale entusiasmo per la nuova sistemazione e per i piaceri della convivenza di coppia, Labidi deve industriarsi per sbarcare il lunario, senza far sapere a Elisa quanto precario sia il suo budget. Quindi, animato da presunzione, eccessiva nonchalance e temerarietà, si imbarca in un vorticoso carosello di stratagemmi e rischiosi azzardi, tra utilizzo di carte di credito bloccate, piccoli furti di cibo e altri prodotti utili, truffe assicurative e domande di impiego falsificate. Inoltre accetta una ridda di impieghi e di lavoretti precari, da fattorino in bicicletta a commesso in un rispettabile negozio di occhiali. Tuttavia ben presto la continua preoccupazione per procurarsi il denaro necessario a fronteggiare le molte spese diventa un’ossessione e il ritmo estenuante della vita quotidiana finisce per compromettere desideri, ambizioni, fiducia in sé stesso e le relazioni con gli altri. Labidi non rispetta gli orari e si mostra incauto, rischiando persino di perdere il posto di commesso. Per non parlare della sopravvenuta mancanza di ispirazione che lo porta al classico “blocco dello scrittore” e quindi a non rispettare le scadenze del contratto per il libro, mettendo in crisi il rapporto con il proprio agente. Finché anche Elisa, dopo aver scoperto le sue bugie, i penosi tentativi per coprirle e i suoi traffici, lo abbandona. Ma, proprio quando rischia il fallimento a tutti i livelli, il protagonista riesce a trovare il bandolo della matassa: inizia furiosamente a scrivere un nuovo romanzo autobiografico che racconta la sua vera odissea esistenziale, mostrando sincerità e autoironia. Louda Ben Salah - Cazanas propone il classico topos del passaggio all'età adulta, ma riesce a essere in larga parte convincente perché sviluppa la narrazione con fine sensibilità, tra intimità e distacco. Rielabora diversi clichés con humour arguto ed evitando, quasi sempre, i toni esagerati della pochade o della drammatizzazione a effetto. Riecheggia anche, in termini contemporanei, alcuni temi del cinema della “Nouvelle Vague” francese, coniugandoli con quelli delle radici etniche e culturali e delle difficoltà della carriera artistica. E rende credibile la rappresentazione di aspetti del substrato antropologico e sociale che configurano largamente il ritratto di molti giovani della generazione dei millennial in Europa.

11) Death of a Virgin, and the Sin of Not Living (Lebanon, w. p., 2021, 1° film), di George Peter Barbari. Un piccolo romanzo di formazione, interessante e piuttosto originale. Vi si intrecciano realismo sociale, spunti poetici, sottile ironia e dolorosa disillusione. Ambientato in una cittadina costiera, racconta una giornata particolare in cui si consuma un rito di passaggio, molto atteso e immaginato: l’avventura della prima esperienza sessuale. I protagonisti sono quattro teenager appartenenti a famiglie piccolo borghesi. Nelle prime ore del mattino Etienne (Etienne Assal) si trova in camera sua in compagnia di Adnan (Adnan Khabbaz). I due ragazzi si eccitano guardando in streaming un filmetto pornografico. Da tempo hanno messo insieme la somma necessaria per pagare le prestazioni di una prostituta conosciuta da Adnan una settimana prima quando suo zio lo aveva condotto con sé in un postribolo. Prima di uscire Etienne rassicura sua madre (Maria Doueihi) con le solite bugie. Quindi i due amici raggiungono Jean Paul (Jean Paul Franjieh) e Dankoura (Elie Saad). Durante il tragitto in auto e in autobus nascondono tensione e nervosismo ontessendo chiacchiere su chiacchiere, alternando lazzi scherzosi, aneddoti e vanterie, nonché commenti sciocchi o offensivi su persone che incrociano casualmente. Quindi giungono a un piccolo hotel affacciato sul mare dove incontrano una maitresse (Souraya Baghdadi). Quest’ultima, dopo aver ricevuto la somma di denaro pattuita, presenta loro Christelle (Feyrouz AbouHassan), la prostituta, verosimilmente siriana, incaricata di soddisfarli uno per uno. Le scene dei rapporti sessuali che si susseguono, con la telecamera concentrata sui volti, tradiscono disagio, ma anche sensibilità inespressa e un fondo di malinconia. Il viaggio di ritorno a casa si concentra su Etienne quasi a sottolineare il futuro amaro che la vita gli ha riservato. George Peter Barbari riesce a demitizzare il rito di passaggio della gioventù maschile mediante una scrittura ricca di sfumature, che configura pathos, senza scadere mai nei toni patetici, e una messa in scena matura, caratterizzata da fluidi movimenti di macchina e da efficaci piani sequenza. Sviluppa un ritmo narrativo incisivo anche grazie a un felice espediente che gli consente di definire i caratteri collocandoli anche nella prospettiva del loro futuro, con ampi riferimenti alle drammatiche contraddizioni di un Paese, il Libano, tormentato da anni da una crisi istituzionale e politica sempre più acuta. In effetti interseca le conversazioni e i dialoghi tra i personaggi con brevi monologhi in voice over dei singoli che, volta per volta, con modalità surreali, fanno i conti con la loro coscienza e raccontano non solo dilemmi, paure e desideri interiori, ma anche ciò che la vita riserverà loro, ovvero il loro destino, tra eventi lieti o drammatici inaspettati, e persino le circostanze della loro morte. Accanto a Etienne vi sono la madre (Maria Doueihi), che non ha mai superato la morte del coniuge, vittima di un incidente aereo, che l’amava molto, e la sorella Windy (Windy Ishak), che non ha mai rivelato di essersi sottoposta a un aborto nel recente passato e di provare disagio con il proprio aspetto fisico e che, pur desiderandolo, non riuscirà mai ad avere il coraggio di partire dal luogo natio, dove infine morirà a 87 anni di età. Etienne sarà invece condizionato tutta la vita da quel primo rapporto sessuale con la prostituta Christelle, umiliante e sconvolgente al tempo stesso. Jean Paul invece è un tipo passionale, che nasconde insicurezza e scarso acume pose da macho al punto che, dopo un anno di relazione con una ragazza, l’ha baciata solo un paio di volte.

12) Souad (Egypt / Tunisia / Germany, w. p., 2021, 2° film), di Ayten Amin. Un coming-of-age movie: interessante sia in termini drammatici sia dal punto di vista sociale e culturale. Offre il ritratto di una giovane donna che tenta di vivere una doppia vita, conciliando il desiderio di un’ambigua emancipazione e di un’identità altra, tramite l’uso distorsivo dei social media, con l’apparente adesione alla tradizionale consuetudine familiare e alle regole comportamentali previste dalla morale comune e dalla religione musulmana. Souad (Bassant Ahmed) è una studentessa diciannovenne di condizione modesta che abita con la famiglia, in un villaggio rurale alla periferia de Il Cairo. La giovane vive una doppia vita: da un lato è diligente negli studi e si mostra come una figlia obbediente ai dettami e alle aspettative dei suoi genitori, mentre dall’altro costruisce una sua fittizia identità di donna libera e moderna, creando un falso profilo sui social media, e cerca di stabilire relazioni virtuali improntate al romanticismo. La vicenda inizia su un autobus di linea, da sempre luogo di grande socialità nei paesi arabi. Souad conversa amabilmente con persone sconosciute, mostrando immagini archiviate nel suo smartphone e racconta aneddoti riguardanti il suo amato fidanzato Ahmed (Hussein Ghanem), che a detta sua starebbe svolgendo il servizio militare nella penisola del Sinai. Dopo aver effettuato un cambio di autobus, continua a chiacchierare, ma la storia che racconta è diversa: lo stesso fidanzato ventenne Ahmed, apparterrebbe a una famiglia di medici e starebbe frequentando la facoltà di Medicina. Viceversa la protagonista è piuttosto taciturna quando si trova in famiglia, nello spazio claustrofobico di un piccolo appartamento condiviso con la petulante sorella minore Rabab (Basmala Elghaiesh) e con i genitori (Islam Shalaby e Mona Elnamoury), che le sembrano incapaci di comprenderla. Si trova più a suo agio con Wessam (Hager Mahmoud), un’amica più esperta di lei rispetto alla comunicazione con i maschi, con cui per altro i rapporti sono ondivaghi, tra affinità e complicità alternate a irritazione e conflitto quando si sente derisa o provocata. Tuttavia il problema principale per Souad, che è fonte di costante angoscia, deriva dalla sua relazione immaginaria con Ahmed. Il giovane, individuato e contattato via social dalla protagonista, vive ad Alessandria, città più aperta e alla moda. Ed è molto attivo sui social media anche perché lavora come “content creator” per conto di Facebook e Tik Tok, ovvero si occupa di aiutare gli utenti a creare una nuova immagine di sé stessi. Ma purtroppo non considera con attenzione i messaggi di Souad e ignora le sue melliflue dichiarazioni d’amore. Finché un giorno Rabab, che ha scoperto i segreti della sorella, compie una mossa temeraria: si reca segretamente ad Alessandria per incontrare Ahmed. E Souad resta totalmente all’oscuro rispetto a quella circostanza destabilizzante. Inaspettatamente tra Rabab e Ahmed si crea un certa empatia, fino a configurare, nel corso di poche ore, un’improvvisa spontanea amicizia. Ayten Amin propone una narrazione al tempo stesso realista e naturalista, alterna momenti più meditativi e accelerazioni ironiche e riesce a descrivere con sufficiente credibilità la quotidianità e la psicologia dei personaggi. La rappresentazione di una giovane, alle soglie dell’età adulta, che mette a repentaglio la propria identità per il desiderio e per l’illusione di sperimentare liberamente le relazioni con gli altri e che si trova a essere in balia della tecnologia, risulta a tratti davvero efficace, anche se non mancano alcuni spunti sensazionalisti.

13) Glück (Bliss) (Germany, w. p., 2021, 2° film), di Henrika Kull. Un’opera di convincente e autentica. L’intensa e malinconica storia d’amore tra due prostitute, che lavorano in un bordello legale di Berlino, pulito e dignitoso anche se non di lusso. La quarantaduenne Sascha (Katharina Behrens, al suo primo ruolo da protagonista) è tedesca e molto legata al suo unico figlio undicenne, che vive a Brandeburgo con la nonna e con il padre che si è messo insieme a una nuova compagna. Ma purtroppo può incontrare il bambino solo un paio di volte al mese. Esercita il mestiere di sex worker da molti anni e ama mostrarsi come una donna forte, autosufficiente e, all’occorrenza, anche cinica. È rispettata dalle colleghe e apprezzata dalla maitresse che gestisce gli affari con attenzione, cercando di evitare episodi di violenza da parte dei clienti. È passionale e sa mostrarsi piena di entusiasmo, ma intimamente vive anche momenti di insicurezza, scarsa autostima e instabilità caratteriale. Si intuisce che è stata infelice e che nel passato ha vissuto lacerazioni e sconfitte. La ventenne Maria (Adam Hoya, una performer, ma anche una sex worker nella vita reale) è italiana ed è la nuova arrivata nella casa di tolleranza. Proviene dalla provincia lombarda: è indipendente, rilassata e sicura di sé. Sascha la nota subito. Ed è attratta dalla bellezza non vistosa, dall’eleganza e dalla serenità di Maria, che appare diversa, con i suoi tatuaggi, ma anche perché scrive poesie durante le pause tra un cliente e l’altro. Poco a poco si accorge di essere innamorata, ma è timorosa. Finché scopre che quella giovane donna in fondo è dolce e disposta a lasciarsi amare da lei e che sa offrirle davvero un sentimento nuovo e una diversa possibilità di cercare la felicità. Ne nasce una storia controversa, tra piacere dell’innamoramento, passione, fiducia reciproca, determinatezza, incomprensione e, infine, un epilogo aperto che allude a una possibile speranza. Henrika Kull ha girato il film in un vero bordello e propone una messa in scena sostanzialmente ben strutturata ed efficace a partire da una scrittura onesta, diretta ed empatica. Dirige al meglio le due attrici protagoniste e riesce a definire i caratteri dei loro personaggi descrivendone nei dettagli gesti, comportamenti e reazioni emotive ed evitando lo psicologismo di maniera e i toni prosaici. Ne risulta un’impressione di convincente autenticità. 14) A Última Floresta (The Last Forest) (Brazil, w. p., 2021, 2° documentary), di Luiz Bolognesi. Un interessante documentario dedicato all’etnia Yanomani che vivono in piccole comunità nella foresta pluviale dell’Amazzonia, nella zona di frontiera tra Brasile e Venezuela. Bolognesi ha collaborato con lo sciamano Davi Kopenawa Yanomami. Combina osservazione reale e parziale messa in scena e documenta molti aspetti della cultura e del modo di vivere del popolo degli Yanomani. Racconta le minacce che subisce l’invasione di numerosi cercatori d’oro che devastano il territorio e inquinano irrimediabilmente i corsi d’acqua utilizzando grandi quantità di mercurio.

Section Forum

15) À pas aveugles (From Where They Stood) (France / Germany, w. p., 2021, 6° documentary), di Christophe Cognet. Un documentario necessario e impressionante. Propone ed esamina le fotografie scattate clandestinamente da prigionieri dei lager nazisti di Ravensbrück, Dachau, Auschwitz-Birkenau e altri ancora.

16) A River Runs, Turns, Erases, Replaces (USA, w. p., 2021, 4° documentary), di Shengze Zou (Chinese, she moved to the States). Un interessante documentario che rappresenta un nuovo tassello in un iter di rappresentazione, originale e controversa, della nuova Cina contemporanea. Dai film di Shengze Zou emerge il vertiginoso sviluppo economico del Paese con le trasformazioni sociali e urbanistiche che ne sono derivate. Giova ricordate, tra l’altro, il suo precedente Wan mei xian zai shi (Present Perfect) (2019), che raccoglie una carrellata di autoritratti di youtuber e vlogger, di vari luoghi della Cina, apparentemente ingenui ed entusiasti di mettersi a nudo. Sono prolifici videomaker artigianali che documentano momenti della loro vita o la loro smania di filmare ciò che ritengono strano o interessante, tra cui anche comportamenti rozzi, egoisti e subculturali (o che registrano video trasmessi in diretta su alcuni siti online), per poi interagire in chat con coloro che osservano e commentano quei loro filmini. Purtroppo si tratta di un’operazione programmatica inusuale, ma pretenziosa ed estremamente ambigua, perché non vi è chiarezza rispetto ai criteri di selezione utilizzati nella scelta del materiale visivo, mentre prevale l’eterogeneità di temi e situazioni affastellati insieme. Questo nuovo lavoro di Shengze Zhu, ben più significativo e motivato, propone invece un ritratto degli spazi urbani di Wuhan, luogo natale della stessa regista. La metropoli di 11 milioni di abitanti, capitale dello Hubei è una città fluviale posta alla confluenza tra i fiumi Han e Yangtze, il mitico Fiume Azzurro il cui bacino, insieme con quello del Fiume Giallo, ha rappresentato la culla dell’antica civiltà cinese. Ma è anche la località in cui è esplosa la pandemia da coronavirus Sars-Cov2 alla fine del 2019. Il film si apre con una scena del ferreo lockdown imposto alla popolazione nel febbraio del 2020: una strada deserta, ripresa dall’inquadratura fissa di una telecamera di sorveglianza. I passanti sono rari: forze dell’ordine, vigili urbani, fattorini e postini. Successivamente vengono proposte immagini precedenti la pandemia. Quelle di una città fluorescente, con un’illuminazione notturna molto colorata, in cui spicca il nuovo ponte, il Qingshan Yangtze River Bridge. Gli edifici vecchi, diroccati, si distinguono anche perché spenti, avulsi da quella nuova estetica rutilante della città. La gente si ammassa sulle sponde del fiume, nelle terrazze che vi si affacciano che costituiscono grandi spazi di svago. Emerge un palcoscenico collettivo dove gli abitanti si esibiscono in vari modi: alcuni ballano, cantano e nuotano; altri spalano, saldano e lavorano con il martello pneumatico nei numerosi cantieri in corso. È un paesaggio in evoluzione, drammaticamente alterato dalla crescita incessante di nuove infrastrutture. Shengze Zhu usa un linguaggio da cinema muto, privo di dialoghi, dove il flusso di immagini si accompagna ai suoni della città. Coerenti con l’estetica del muto sono le didascalie di brani di diari e di lettere indirizzate a persone scomparse a causa della pandemia, non letti da voci off, ma semplicemente scritti in sovrapposizione alle stesse immagini. Chi si rivolge alla nonna, chi, ormai andato a vivere altrove come la regista, al padre, chi rimpiange di non aver potuto tornare per le festività, chi di non essere riuscito a porgere l’estremo saluto in ospedale. A River Runs, Turns, Erases, Replaces è pervaso da un sincero sentimento di dolore per qualcosa che non c’è più: la pandemia ha rappresentato una pietra tombale di un mondo già al capolinea e ha contribuito all’eradicazione del passato e della memoria.

17) Jai jumlong (Come Here) (Thailand, w. p., 2021, 4° film), di Anocha Suwichakornpong. Un affascinante viaggio per immagini: un’opera criptica e misteriosa che ruota attorno a un evento storico traumatico. Quattro amici sui venticinque anni vanno a Kanchanaburi, nell’ovest della Thailandia, per un viaggio. Vorrebbero visitare l’Hellfire Pass Interpretive Centre, il museo commemorativo delle innumerevoli vittime della “ferrovia della morte” nella Seconda Guerra Mondiale, ma l’edificio è chiuso perché vi è in corso una ristrutturazione. Alloggiano presso una casa zattera sul fiume. Si scopre che sono attori di una compagnia teatrale. Parallelamente una donna, che si ritrova sola nel mezzo della foresta, beve, e si lava il viso nel fiume.

18) Mbah Jhiwo (Mbah Jhiwo / Ancient Soul) (Spain, w. p., 2021, 1° film), di Alvaro Gurrea (catalano). Un docu - drama crudo e impressionante, ma ricco di sensibilità. Offre un incisivo ritratto esistenziale, descrivendo con rispetto e credibilità un mondo antico, in cui si confrontano animismo, religione islamica e capitalismo neocoloniale. Documenta la dura condizione di Yono, detto Mbah Jhiwo, che dovrebbe significare “anima antica”. È un minatore trentenne che trasporta grandi blocchi di zolfo estratto dalle pendici del cratere del vulcano Kawa Ijen, nella regione orientale della grande isola di Giava, in Indonesia. La vicenda sembra svolgersi in un tempo sospeso. Ma l’uomo si trova a fronteggiare due eventi inaspettati e drammatici. Un giorno all’improvviso sua moglie Oliv lo abbandona, mettendo in crisi una routine di atti ripetitivi. Yono non si rassegna: la ritrova tramite facebook e cerca di convincerla a ritornare a casa con lui. Un altro giorno sua madre si ammala a causa di una patologia sconosciuta e Yono cerca di salvarla. In entrambi i casi il protagonista si affida a un mix di rimedi che comprende pratiche magiche, preghiere ad Allah, cerimonie religiose e un pellegrinaggio. È un film inclassificabile in cui si mescolano documentario antropologico, parabola e suggestioni metafisiche. Alvaro Gurrea esplora e descrive, con discreta efficacia, una condizione di alterità. Se ne accosta con acuto spirito di osservazione, evidenziando, senza velleità didascaliche, le contraddizioni del mito del progresso in una realtà periferica dell’ampia area del sud est asiatico.

19) The First 54 Years - An Abbreviated Manual for Military Occupation (France / Finland / Israel / Germany, w. p., 2021, 9° documentary), di Avi Mograbi (Forum). Un documentario molto coraggioso. Si tratta di un studio di analisi storica e politica sull’occupazione militare israeliana dei territori, di insediamento palestinese, nelle due aree della West Bank e della cosiddetta Gaza Strip, conseguenza delle guerre tra Israele e i Paesi arabi confinanti. Fin dal suo esordio nel 1989 e nel corso di 32 anni, Avi Mograbi ha sempre investigato le molteplici contraddizioni che segnano la società e la politica israeliana. Nei suoi documentari non ha mai nascosto la scelta antisionista e ha messo a confronto ebrei e palestinesi rispetto a questioni cruciali del conflitto che perdura dal 1948: le terre contese, gli insediamenti dei coloni ebrei, la condizione dei militari impegnati in operazioni di repressione, i centri di detenzione di palestinesi arrestati come sospetti terroristi, ecc. Questo nuovo lavoro è strutturato come un saggio che ripercorre tutte le tappe della strategia militare israeliana, iniziando dalla guerra del 1967 e dalla famosa Risoluzione 242 dell’ONU, che imponeva il ritiro delle truppe dai territori occupati, ma che è stata sistematicamente ignorata dai vari governi israeliani. Mograbi, seduto nel suo studio e inquadrato frontalmente con una telecamera fissa, assume una funzione di memoria storica e di narratore, introducendo e commentando i vari capitoli del film che si susseguono secondo un ordine cronologico. Si alternano cartine e schede informative, footage di operazioni di controllo, spesso brutale, della popolazione civile palestinese, e 38 interviste a ex militari, in maggioranza con gradi minori, che hanno aderito al progetto “Breaking the Silence”. Quest’ultimo configura un’organizzazione indipendente di veterani, che hanno svolto il servizio militare obbligatorio nel corso dell’ultimo ventennio, a partire dalla rivolta palestinese definita “Seconda Intifada”, iniziata nel settembre del 2000 e contrassegnata da attentati terroristici suicidi di guerriglieri palestinesi. A partire dal 2004 i suoi componenti hanno raccolto materiali e testimonianze sull’occupazione, dal 1967 ad oggi, con lo scopo di divulgare all’opinione pubblica israeliana la realtà della vita quotidiana nei territori occupati, per stimolare il dibattito sul drammatico confronto, che avviene da decenni, tra civili palestinesi e soldati israeliani, che sono spesso giovani reclute. In termini generali gli aderenti a “Breaking the Silence” ritengono di avere ricevuto ordini immorali da parte dei vertici militari e si propongono l’obiettivo di giungere a una drastica soluzione politica: la fine dell’occupazione. Mograbi vuole evidenziare la strategia non dichiarata di escalation attuata da parte dei governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi 54 anni per ottenere un’annessione permanente dei territori occupati allo stato di Israele. Quindi sceglie deliberatamente di non inserire nel film interviste a palestinesi. Infatti i rari dialoghi di questi ultimi sono puramente contestuali alle situazioni filmate. Attraverso un ampio materiale d’archivio di immagini e di documenti scritti emerge una routine di contrasti, perquisizioni arbitrarie di case ed edifici, soprusi e percosse a uomini, donne e adolescenti da parte dei militari dello Tsahal, le Forze Armate israeliane. In sostanza The First 54 Years denota una narrazione del tutto unilaterale, ma molto precisa, fattuale, efficace e significativamente piena di tristezza, coadiuvata da un montaggio lineare e puntuale.

20) No táxi do Jack (Jack’s Ride) (Portugal, w. p., 2021, 2° film), 70’, di Susana Nobre (Forum). Il ritratto empatico di un uomo nella fase conclusiva della sua esperienza lavorativa, tra ricordi di varie esperienze del passato di immigrato negli USA e impegno per affrontare il futuro da pensionato. Joaquim ha 63 anni e ha trovato un accordo con il proprio datore di lavoro: potrà andare in pensione dopo aver accettato un breve periodo di disoccupazione. Tuttavia, per concedergli il sussidio di disoccupazione, l’ente governativo preposto gli chiede di dimostrare che ha effettuato alcuni tentativi di richiesta di impiego. Quindi inizia un tour di visita di varie piccole officine nell’hinterland industriale di Lisbona e nelle campagne. E verifica che molte di queste sono inattive o stanno chiudendo. Quindi inizia a rievocare quando all’età di 22 anni, nel 1972, è emigrato a New York, tentando la sorte con solo 300 dollari in tasca. Joaquim, che negli USA veniva chiamato Jack, è stato inizialmente ospitato da un conoscente. Ha cominciato effettuando le pulizie in una gioielleria e ben presto è diventato taxista e anche autista di limousine. L’esperienza ventennale di immigrato a New York diventa centrale nell’economia del documentario. Viene ricostruita con un abile artificio in cui si mescolano racconti autobiografici e ricostruzione fittizia in studio di scene di vita vissuta. Joaquim appare sempre azzimato, con camicie dai colori sgargianti, e sicuro di sé. Si rivede alla guida del taxi, una bella auto Mercedes. Ricorda aneddoti, frequentazioni ed amici. Nel 1992 è tornato in Portogallo e ha trovato lavoro come addetto alla sicurezza in aeroporto e successivamente come meccanico addetto alla manutenzione degli aerei. Susana Nobre evita accuratamente la deriva didascalica e pone a proprio agio il protagonista, rivelando poco a poco la sua personalità tranquilla e ottimista. La scelta dell’aspect ratio 4:3, rettangolare tozzo, del film appare particolarmente efficace perché evoca il cinema e la televisione d’epoca.
 

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