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pxrouge FESTIVAL REVIEWS I71. Berlinale 2021: vince il cinema romeno Novità da Europa orientale e AsiaI BY GIOVANNI OTTONE I 2021

71. Berlinale 2021 : 

vince il cinema romeno

  
Novità da Europa orientale e Asia Orso d’Oro per il miglior film a “Bad Luck Banging or Loony Porn”, di Radu Jude e Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria, a “Wheel of Fortune and Fantasy”, di Ryusuke Hamaguchi.

by Giovanni Ottone

The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov

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La 71.Berlinale ha dovuto forzosamente essere ripensata a causa della grave ripresa della pandemia da coronavirus Sars-Cov2, nelle maggior parte dei Paesi del mondo, a partire dallo scorso ottobre.
 

Questa grave situazione ha determinato la decisione di effettuare il Festival di quest’anno con un nuovo format, articolato in due fasi temporali, con diverse modalità: un evento online all’inizio di marzo, definito “Industry Event” e riservato esclusivamente a professionali del cinema, costruito per garantire lo svolgimento dello European Film Market; un probabile evento definito “Summer Special”, programmato dal 9 al 20 giugno e dedicato completamente al pubblico, con proiezione indoor e outdoor dei film di tutte le sezioni del Festival, già presentati a marzo, con l’aggiunta della tradizionale Retrospettiva intitolata quest’anno “No Angels - Mae West, Rosalind Russell & Carole Lombard”, dedicata all’epoca d’oro del genere screwball comedy a Hollywood e comprendente 27 film, realizzati tra il 1932 e il 1943. 

  La prima parte della “71. Berlinale“, che ha avuto luogo dal 1 al 5 marzo (con repliche anche il 6 e 7 marzo dei film premiati della Competition), è stata definita un “Industry Event”, è stata fruibile solo da due categorie di accreditati, i professionali del cinema ovvero operatori dell’industria, funzionari ed agenti delle compagnie di produzione e di distribuzione, buyers e sellers, e i giornalisti, essenzialmente critici di cinema, e si è svolta completamente online.

Peraltro, grazie a un notevole sforzo organizzativo dell’intero staff del Festival, ha garantito sia la presentazione di un totale di 139 film (di cui 34 cortometraggi e 35 documentari), provenienti, come profilo produttivo, da 59 Paesi (mentre nel 2020 i film presentati erano attribuibile produttivamente a 71 Paesi) suddivisi nelle sezioni Wettbewerg (Competition), Encounters, Berlinale Shorts, Berlinale Special & Berlinale Series, Panorama, Forum, Forum Expoanded, Generation, Perspoectives, Deutsches, Kino, sia lo svolgimento virtuale di tutte le attività del consueto European Film Market, uno dei principali appuntamenti mondiali del business cinematografico internazionale, comprese le piattaforme Berlinale Co-Production Market e World Cinema Fund, nonché il Berlinale Talents, un progetto di carattere formativo culturale e di interscambio con l’industria cinematografica, giunto alla diciannovesima edizione e dedicato a giovani filmmaker e altri operatori professionali del mondo cinematografico, in campo artistico e produttivo.

 Quest’anno la sezione Wettbewerg, la competizione ufficiale, ha presentato 15 lungometraggi, di cui 2 opere prime, tutti in anteprima mondiale. Il Direttore Artistico del Festival, Carlo Chatrian, ha proposto un mix di autori con prevalenza di quarantenni e cinquantenni, tra cui alcuni noti veterani (Hong Sang-soo e Xavier Beauvois), ma anche con una significativa presenza di trentenni. I registi asiatici, da Giappone, sud Corea, Iran e Libano (Ryusuke Hamaguchi, Hong Sang-soo, Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam, Joana Hadjithomas e Khalil Joreige ) sono risultati ben rappresentativi e i loro film del tutto riusciti, o eccellenti. Viceversa la rappresentanze europea, con significativa presenza dei Paesi della parte orientale del continente, è apparsa disomogenea, ma complessivamente di discreto livello. Alcuni autori hanno mostrato o confermato pienamente il loro talento (Alexandre Koberidze e Dénes Nagy), mentre altri hanno presentato film interessanti, ma, in parte, meno riusciti (Maria Speth, Céline Sciamma e Bence Fliegauf), e altri ancora hanno invece presentato opere piuttosto deludenti, con provocazioni di corto respiro, o con tratti melodrammatici convenzionali e affabulatori o caratterizzate da una comicità poco incisiva (Radu Jude, Xavier Beauvois e Maria Schrader). Invece, inspiegabilmente, non sono stati selezionati autori e film degli USA ed è stato inserito un unico film di un regista latinoamericano quarantenne (Alonso Ruizpalacios), dal Messico, che, per altro, ha costituito una gradita conferma della qualità del suo lavoro. Sulla base di una nuova concezione, frutto di una riflessione da parte della direzione del Festival, la Giuria internazionale è stata formata da sei registi già vincitori dell’Orso d’Oro al miglior film durante precedenti edizioni della “Berlinale”, svoltesi negli ultimi anni: Mohammad Rasoulof (Iran), Nadav Lapid (Israele), Adina Pintilie (Romania), Ildikó Enyedi (Ungheria), Gianfranco Rosi (Italia) e Jasmila Žbani? (Bosnia). Commentiamo innanzitutto un film in concorso, tra i più attesi dalla critica, che, al contrario, ci è sembrato non del tutto riuscito.

Petite Maman, quinto lungometraggio scritto e diretto dalla francese Céline Sciamma, è un dramma che descrive, con modalità narrativa piuttosto originale, l’universo infantile e il confronto con l’età adulta. Ma, purtroppo, risulta poco convincente e molto pretenzioso perché le sue potenzialità sono soffocate da una confusa deriva programmatica. Si tratta di un racconto che vorrebbe cogliere lo spirito e la psicologia dei bambini, tra fantasy fiabesco, realismo magico e velata distopia, ponendo al centro una relazione specifica, interamente femminile. All’inizio della storia Nelly (Joséphine Sanz), una bambina di otto anni, sta gironzolando nella casa della nonna recentemente scomparsa, mentre mamma (Nina Meurisse) e papà (Stéphane Varupenne) sono impegnati a riordinare, svuotare e ripulire gli ambienti. Si tratta di una vecchia villetta isolata in campagna, circondata da una natura incontaminata, tra boschi e radure dai colori autunnali. Nelly vorrebbe aiutare, ma si annoia e si sente trascurata dagli indaffarati genitori.

 

Petite maman

Petite maman, Céline Sciamme

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Quindi si trova a fare i conti con le vestigia dell’infanzia della sua mamma. Esplora la casa e ritrova i giochi di sua madre, quando era bambina, li prova e cerca di ottenere informazioni sul passato. Il mattino successivo al loro arrivo cerca la mamma e non la trova: all’improvviso sembra scomparsa. Nelly, per nulla turbata, fa colazione da sola. Poi esce dalla casa e si addentra nella foresta per cercare la capanna di frasche costruita su un albero, luogo di gioco preferito di sua madre, di cui molte volte ha sentito parlare. E incontra un’altra bambina, della sua stessa età, che dice di chiamarsi Marion (Gabrielle Sanz), lo stesso nome della sua mamma, e che sta costruendo proprio un rudimentale rifugio tra i rami di un albero. Le due bambine si intendono subito e iniziano a giocare amichevolmente insieme. Nelly dice a Marion che avrebbe voluto avere altri fratelli e sorelle. Poi immagina sua nonna quando era ancora in vita e soffre per non aver potuto incontrarla un’ultima volta prima della sua morte avvenuta nella casa di riposo in cui era ospitata. Quando sua madre riappare Nelly sembra diversa. Il cinema della quarantaduenne Céline Sciamma ha costantemente osservato e descritto, con originalità priva di intenti didascalici, l’universo femminile, dedicandosi alle traiettorie, alle contraddizioni e alle aspettative delle adolescenti francesi di oggi e ponendo al centro l’interazione dei corpi, ma anche gli itinerari di incontro di sensibilità e di identità diverse. Naissances des pieuvres (2007), il suo primo film, rappresenta le dinamiche di attrazione erotica e di timida iniziazione sessuale tra tre quindicenni impegnate nel nuoto sincronizzato in piscina. È un coming-of-age movie incompiuto, in cui si consumano pulsioni, sguardi, gesti, parole e fantasie, tra stereotipi rivisitati e felici intuizioni. Tomboy (2011) racconta con estrema delicatezza la complicata esperienza di un’esile ragazzina androgina che, trasferitasi in un nuovo quartiere parigino durante le vacanze estive, si comporta come un maschio e stringe un legame speciale con una coetanea. Siamo di fronte a un gioco di ambiguità dell’identità sessuale in età prepuberale, tra sfrontatezza e sofferenza. Bande de filles (2014) descrive l’universo giovanile, soprattutto femminile, delle banlieues parigine attraverso la storia di una piccola banda di sedicenni di origine africana, determinate e molto solidali tra loro, che sono responsabili di bravate, piccoli furti e di atti di bullismo verso le coetanee. Ne emerge un ritratto esistenziale abbastanza genuino ed efficace, che si sviluppa attraverso un mix di fascinazione consumista, sicurezze infrante e rischio di devianza criminale. Dopo Portrait de la jeune fille en feu (2019), un ispirato melodramma d’epoca a lenta combustione ed esteticamente ricercato e virtuoso, che racconta la fascinazione intellettuale, l’innamoramento e la passione erotica fra due giovani donne che precorrono il Romanticismo, Petite Maman rappresenta un netto cambio di registro narrativo ed estetico. Céline Sciamma propone un piccolo film, un’opera low budget, apparentemente semplice, con uno sviluppo minimo, ma segnata da una particolare intensità e da una sottile tensione interna. Si ricollega a due tra i suoi temi di maggior interesse: l’età preadolescenziale e l’identità femminile. Ruota intorno alle questioni dell’immaginazione che attraversa il tempo e lo spazio e della scoperta della memoria da parte di una bambina. Tuttavia la dimensione fantastica viene offuscata da una rappresentazione della relazione tra figlia e madre che appare misteriosa e magica, va oltre la realtà, ma resta irrisolta. E anche la chiara volontà di prospettare sempre il punto di vista della bambina, ovvero di guardare il mondo circostante con i suoi occhi, per spiazzare e affascinare lo spettatore, appare più programmatica che genuinamente poetica. La messa in scena è sobria e ben controllata: evita orpelli e artifici espressivi e visivi, sceglie con precisione i campi e le inquadrature e rinuncia quasi completamente all’uso adiuvante della musica. Da segnalare la luminosa e morbida fotografia curata da Claire Mathon, già collaboratrice di Céline Sciamma in alcuni precedenti film. Proponiamo quindi la critica di tre lungometraggi, che ci sembrano particolarmente riusciti, ma sono stati esclusi inopinatamente dai premi della Giuria internazionale.

Ballad of a White Cow

“Ballad of a White Cow” di Maryam Moghaddam

 

Ghasideyeh gave sefid (Ballad of a White Cow), è il frutto della collaborazione di due registi iraniani: opera seconda di Behtash Sanaeeha ed esordio alla regia dell’attrice Maryam Moghaddam, protagonista e co-sceneggiatore del film. È un dramma esistenziale con una precisa caratterizzazione politica, molto convincente e meritevole. Ambientato a Teheran, propone la vicenda di Mina (Maryam Moghaddam davvero eccellente), una trentenne rimasta vedova dopo che suo marito Babak è stato giustiziato perché giudicato colpevole di omicidio. La donna, madre di Bita (Alvin Poor Raoufi), una bambina di nove anni nata muta, è stata obbligata a accettare di lavorare come operaia addetta ai controlli in una azienda di imbottigliamento del latte. In ogni caso cerca di affrontare con dignità il disagio di una condizione di gravi ristrettezze economiche e le frequenti umiliazioni a cui è sottoposta. Tra l’altro subisce continue intimidazioni da parte della famiglia del marito scomparso, che interferisce su come vive e sulla sua condotta e la accusa di aver sottratto una presunta somma di denaro nascosta dallo stesso Babak. 

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Un giorno viene convocata dalle autorità e le viene comunicato che il caso di suo marito è stato riaperto perché il vero assassino ha confessato. Quindi lo stato ha disposto di corrisponderle un risarcimento finanziario a causa del grave errore giudiziario. Ma non le vengono date spiegazioni sulle responsabilità emerse al riguardo, né riesce ad avere accesso ai documenti relativi al processo. Poco dopo il cinquantenne Reza (Alireza Sani Far), un sedicente imprenditore che afferma di dover restituire un prestito che gli aveva concesso Babak, entra nella vita di Mina e conquista progressivamente la fiducia della donna. Ne diventa un sostegno, offrendole in affitto un confortevole appartamento e supportandola, grazie alle sue conoscenze, nell’affrontare la causa legale intentatale dal suocero e dal cognato che intendono sottrarle la custodia di Bita. Tuttavia Reza è un uomo tormentato. Nasconde un segreto: è uno dei due giudici che hanno sancito la condanna di Babak. Ora si sente in colpa e ricerca un’impossibile percorso di espiazione. In effetti si è dimesso dalla magistratura e subisce pressioni da parte di un funzionario. L’uomo lo informa che i vertici non hanno approvato la sua diserzione dal ruolo professionale, e gli ricorda che lo stato teocratico ha sancito che la pena di morte per i rei è un legittimo diritto a favore dei congiunti delle vittime dei delitti. Tra l’altro anche la sua vita personale è in crisi. È separato dalla moglie ed è in contrasto con il suo unico figlio ventenne, un giovane che non accetta i dettami antioccidentali del regime e che lo accusa di essere un ipocrita. Poi un giorno, alla vigilia della partenza per il servizio militare, il giovane muore a causa di una overdose da sostanze stupefacenti. Reza è vittima di un grave shock psicofisico e Mina lo accudisce con affetto. Sembra che tra loro possa nascere una relazione stabile. Ma Reza riceve la visita di due agenti della polizia del regime che lo interrogano, chiedendogli conto dei suoi rapporti con Mina e che, soprattutto, lo accusano di aver pubblicato online una dichiarazione autocritica del suo operato come giudice che ha decretato una pena capitale. Quindi gli comunicano che potrebbe quindi essere identificato come un attivista a favore dei diritti civili. Nell’epilogo Mina, dopo aver vinto la causa per il mantenimento della custodia di Bita, viene maltrattata dal cognato che la informa circa la vera identità di Reza e la responsabilità di quest’ultimo nella decisione della sentenza di condanna di Babak alla pena capitale. La situazione precipita in un epilogo molto doloroso. Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam propongono un melodramma amaro e realistico, puntuale e coinvolgente, senza indulgere nel pathos di maniera, evitando il sensazionalismo e la deriva didascalica e dirigendo con intelligenza gli attori. Sviluppano un efficace studio di caratteri mediante un uso intelligente della introspezione psicologica e offrono un’eccellente disanima della condizione femminile, vittima della società patriarcale, della morale misogina, del controllo sociale e delle leggi discriminatorie della repubblica islamica, anche in un contesto sociale di piccola borghesia. Particolarmente efficace risulta il personaggio di Mina, una donna vulnerabile, che subisce enormi pressioni e ricatti odiosi, combatte la solitudine, lotta per la propria autodeterminazione e vede infine tradita la fiducia e la speranza di una nuova vita. Ballad of a White Cow evidenzia la sofferenza esistenziale che scaturisce dal fatto che gli individui devono uniformarsi agli unici valori che consentono di sopravvivere nell’Iran di oggi: la menzogna, l’ipocrisia e la doppia morale. Al tempo stesso mette a fuoco coraggiosamente il ritratto di un sistema giudiziario corrotto e retrivo, basato sull’intollerabile principio distorsivo della pena capitale come retribuzione concessa alle vittime e ai loro congiunti. La solida messa in scena utilizza al meglio gli spazi interni, dove si svolge gran parte dell’azione, esplorando con sensibilità documentaristica, angoli e dettagli e combinando diversi piani ed angolazioni. 

Memory Box, quarto lungometraggio scritto e diretto dai libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, che lavorano insieme fin dal loro esordio, è un intenso dramma esistenziale. Offre il ritratto, ricco di sfaccettature, della relazione tra tre donne libanesi, di generazioni diverse, obbligate a ridefinire la loro identità tra contraddizioni del presente e retaggio di un tragico passato. La vicenda si svolge alla vigilia di Natale, quando in Québec una fitta nevicata obbliga a stare in casa. La quarantenne Maia (Rim Turki), è una madre single: una donna indipendente che ha raggiunto una discreta condizione sociale. Vive con la figlia sedicenne Alex (Paloma Vauthier) in una confortevole villetta in un quartiere residenziale. Sono trascorsi molti anni da quando, nel 1988, è emigrata con la madre Téta (Clémence Sabbagh) a Montreal, per sfuggire i traumi della guerra civile libanese, dopo l’assassinio di suo padre.

 

Memory box

"Memory Box", Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

 

 

Un mattino, quando Maia è assente, un postino recapita una cassa inviata da Beirut. Téta, una donna piuttosto scorbutica che, nonostante si trovi in Canada da molti anni, si rifiuta di parlare in francese con i familiari, è venuta a visitare la figlia e la nipote. Quando vede la cassa si mostra preoccupata. Alex invece è incuriosita. È un’adolescente vivace, molto attiva nel comunicare in chat con le sue amiche, confidando pensieri, speranze e sentimenti, ma non è del tutto a suo agio con la madre, che non le racconta né le sue frequentazioni né i dettagli dell’adolescenza trascorsa in Libano. Nonostante la contrarietà della nonna, la ragazza apre il voluminoso contenitore, e scopre un vero e proprio “vaso di Pandora”. Vi sono stipati vecchi quaderni e appunti, fotografie, desuete audio e videocassette e altri oggetti che rivelano a Alex particolari del tutto inediti e sorprendenti della vita di sua madre, quando aveva più o meno la sua età e le assomigliava molto. Si tratta di una specie di diario intimo di parole, voci e immagini che Maia ha confezionato nei giorni in cui ha vissuto contemporaneamente gli impulsi e gli ardori della giovinezza e la paura e la violenza della fase più cruenta della guerra civile. Téta, messa alle strette, rivela alla nipote che si tratta di una specie di ampio memoriale che Maia aveva inviato alla sua migliore amica, Liza, che era riuscita a fuggire con la famiglia a Parigi. Una lettera spiega che pochi mesi prima la donna è deceduta e i parenti, compiendo la sua volontà, hanno rispedito il tutto a Maia. Alex scopre il passato sconosciuto di sua madre, una studentessa figlia dello stimato preside di un liceo, appartenente alla minoranza cristiana maronita. Seduta nella sua camera le sembra di partecipare alle vicende appassionanti e dolorose della precoce transizione all’età adulta di quella giovane che non conosceva: le amicizie, le mode, la musica degli anni ’80, ma anche le costrizioni, la penuria di cibo, il coprifuoco, i tragici agguati e gli scontri armati. Le immagini delle reazioni emotive e della immedesimazione si interpongono a vari flashback di quell’epoca, a Beirut, in cui Maia diciassettenne (Manal Issa) vive esperienze decisive della sua giovinezza: le feste e la violenza, momenti di emancipazione sorprendenti e la libertà soffocata e condizioni di vita sempre peggiori. Ed emerge anche la storia di un primo amore appassionato: Raja (Hassan Akil), un compagno di scuola e deejay che purtroppo fu risucchiato nel vortice delle milizie armate. Più tardi Maia torna a casa e scopre che Alex ha violato le sue memorie segrete. Segue un confronto tra madre e figlia, inizialmente aspro, in cui si rinfacciano le bugie e le incomprensioni. Maia racconta ad Alex di averle taciuto i particolari dei tanti orrori di cui è stata partecipe e testimone e di avere mentito per il timore di sconvolgerla. Ma ora non è più possibile nascondere la verità e tra le due donne si avvia un sincero percorso di accettazione reciproca, di condivisione di emozioni e, per la prima volta, di più intima confidenza. Fino all’epilogo in cui Maia, finalmente in pace con sé stessa e libera dai suoi fantasmi, dopo 32 anni torna a Beirut con Alex e ritrova tanti amici sopravvissuti che le dimostrano il loro affetto. Joana Hadjithomas e Khalil Joreige si interrogano da anni sul ruolo della memoria nella rielaborazione delle immagini della tragica storia del loro Paese, dagli anni ’70 ad oggi, e sui processi emotivi associati ai traumi della guerra. I diari e la corrispondenza di Joana negli anni dal 1982 al 1988 e le fotografie realizzate da Khalil durante la sua attività di fotografo di guerra nella stessa epoca hanno costituito il punto di partenza per elaborare la storia tutta al femminile raccontata in Memory Box. La narrazione è molto dinamica sia nello sviluppo dello studio di caratteri sia nell’articolazione del confronto tra presente e passato grazie alla messa in scena sostanzialmente efficace e alla sagace selezione e direzione degli attori.

What Do We See When We Look at the Sky?

“What Do We See When We Look at the Sky?” di Alexandre Koberidze

 

Ras vkhedavt, rodesac cas vukurebt? (What Do We See When We Look at the Sky?), opera seconda di Alexandre Koberidze, trentaseienne georgiano che ha studiato in Germania, ha ottenuto il Premio della giuria dei critici della FIPRESCI quale miglior film del concorso. Propone un film a tratti davvero delizioso, coinvolgente e divertente, tra elegia poetica e gentile commedia fiabesca. È il racconto stravagante ed emozionante di una storia d’amore, che si mantiene sospeso in un’atmosfera molto particolare, tra realismo minimalista e misteriosa e beffarda magia surreale. La collocazione temporale è quella di un’epoca datata priva di molte stimmate e nevrosi della modernità contemporanea, con rituali antichi e senza l’assillo dei gadget tecnologici, che distorcono la comunicazione interpersonale. Non vi sono precise indicazioni, ma alcuni dettagli confermano che si tratta della tarda primavera e dll’inizio estate del 1990.

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La vicenda si svolge a Kutaisi, un centro di antiche origini, distribuito lungo le sponde del fiume Rioni che l’attraversa: la seconda città più popolata della Giorgia, tranquilla e provinciale. Durante un pomeriggio di tarda primavera due diciottenni, Lisa (Ani Karseladze / Oliko Barbakadze) e Giorgi (Giorgi Bochorishvili / Giorgi Ambroladze) si urtano occasionalmente fuori da una scuola: la ragazza lascia cadere a terra il libro che tiene in mano. Il loro incontro - scontro, che avviene in fuoricampo, provoca un effetto immediato: un incanto e un innamoramento a prima vista. Emozionati e vagamente confusi, non riescono nemmeno a presentarsi con i loro nomi, ma si danno appuntamento per il giorno seguente. Tuttavia, il mattino successivo, al risveglio, entrambi scoprono che le loro sembianze e, segnatamente, i lineamenti dei loro volti, sono diversi. Una magica fattura li ha trasformati fisicamente, ma il ricordo del loro incontro non è scomparso. In aggiunta il sortilegio ha determinato anche uno sconvolgimento nelle loro esistenze: la perdita delle capacità professionali e del talento. Lisa è una promettente studentessa di medicina, ma non riesce più a capire quello che legge e ad applicarsi nello studio, nonostante le parole di conforto di Maya (Sofio Tchanishvili), la sorella maggiore. Giorgi è un calciatore, ma quando si presenta all’allenamento della sua squadra non riesce a giocare come gli viene richiesto, quindi viene escluso dal team. Quando i due giovani si presentano all’appuntamento convenuto, in un animato locale, non si riconoscono, nonostante siano entrambi sul posto. Qualche giorno dopo Lisa, che ha perso il lavoro part time che svolgeva in una farmacia, ottiene un posto come cameriera in un piccolo bar con ampia terrazza posto sulla sponda del fiume, a fianco di un ponte: un punto di ritrovo piacevole, ma non molto frequentato. Poco dopo il proprietario del bar (Vakhtang Panchulidze) incontra per caso Giorgi che passeggia sul ponte e gli offre di lavorare per lui affidandogli il compito di gestire l’insegna di propaganda del locale e altri lavoretti di manutenzione. Quindi i due promessi innamorati, che non possono riconoscersi, diventano colleghi di lavoro. Giorno dopo giorno si dipana una strana relazione, condizionata da un ostacolo soprannaturale, in un’atmosfera di sospensione, tra quotidianità, poesia, tenerezza e buffi malintesi. La faccenda assume toni paradossali quando un giorno Nino (Irina Chelidze), una regista quarantenne accompagnata dal cameraman e dal fonico, avendo scelto il bar per effettuare alcune riprese di un documentario, prega Lisa e Giorgi di prestarsi a fingere di essere fidanzati. Nel frattempo le serate al bar si animano perché, essendo iniziati i Mondiali di calcio, che sono molto attesi anche a Kutais, molte persone si riuniscono davanti al grande schermo approntato per amplificare le immagini televisive. Giorgi, pur essendo tifoso dell’Argentina, rinuncia a vedere la finale e convince Lisa a passeggiare su e giù nella città. È l’occasione per osservare la gente, gruppi di ragazzi che giocano nei campetti di calcio, anziani che chiacchierano e altri gustosi siparietti, compresi quelli di un gruppo di cani randagi, che si ritrovano sul ponte e poi gironzolano nei vari locali quasi come se fossero anche loro interessati a vedere le partite. Fino all’epilogo, atteso e repentino al tempo stesso, in cui l’incantesimo si spezza. Lisa e Giorgi, avendo ripreso l’aspetto iniziale, sorpresi e felici, si riconoscono: si sono infine ritrovati. Alexandre Koberidze, pur avendo realizzato finora solo due lungometraggi da quando ha iniziato a dirigere film nel 2013, è un autore molto promettente. Mostra un originale talento affabulatorio e una suggestiva caratura estetica. Nel suo cinema la narrazione finzionale non segue canoni tradizionali, appare destrutturata e utilizza costantemente la voice over per definire i personaggi e loro vicende, anticipando spesso ciò che si vede sullo schermo. Koberidze mescola elementi realistici, genuini aspetti documentaristici del paesaggio urbano, suggestioni surreali e digressioni poetiche, evitando la schematica caratterizzazione psicologica dei personaggi. Lavora soprattutto sull’osservazione dei dettagli e sulla composizione e sul flusso delle immagini che si combinano con un’eterogeneità di musica e rumori. Si può certamente affermare che rivela una reinterpretazione personale del magnifico cinema di Otar Iosseliani, l’ottantasettenne maestro georgiano residente in Francia dal 1982. In effetti Koberidze, pur non confezionando atipici “racconti filosofici”, ne condivide alcuni tratti essenziali: la narrazione accuratamente costruita, che combina creatività e realismo, a metà strada tra fiction e non fiction, e che privilegia il vagabondaggio urbano; la scelta di personaggi sfortunati o segnati da esperienze non felici, ma che non sono mai davvero complicati o eroici; un interesse pressoché nullo rispetto all’introspezione psicologica; l’osservazione minuziosa del paesaggio umano e naturale presente nelle storie raccontate; una visione ironica, poetica e vagamente malinconica dell’esistenza umana; lo stile curato e semplice al tempo stesso e il diniego di sperimentazioni estetiche virtuosistiche. La sua opera di esordio, Let the Summer Never Come Again ( 2017), film di ben 202’, interamente girato utilizzando un cellulare datato, è un racconto dell’amore tra due giovani uomini che si sviluppa secondo una dicotomia finito / infinito. Configura una parabola amara, scandita in capitoli e caratterizzata da originali riprese documentaristiche della capitale Tbilisi e da sorprendenti momenti lirici e poetici. La narrazione, molto suggestiva, si dipana tra rumori di fondo ossessivi, pochi dialoghi e musica extradiegetica, eterogenea e di fondamentale importanza nei cambi di tono È accompagnata dalla voice over femminile di una misteriosa narratrice che commenta i vari snodi della vicenda e dalla voce di un uomo, che, al principio di ogni capitolo, racconta momenti della propria vita da adolescente. What do we see when we look at the sky? è un atipico fairy tale in cui prevalgono i toni ironici. È una commedia poetica dal ritmo lento, dove la vita trascorre riproponendo rituali antichi: una pudica passione, l’entusiasmo per il calcio ma anche il gusto per la musica. La narrazione, articolata in due atti, evita ellissi e forzature manieristiche e scandisce e commenta le svolte del racconto utilizzando la voice over, che è quella dello stesso regista, demiurgo e interprete delle sorti dei personaggi. La messa in scena punta sull’osservazione, sfruttando i i primi piani dei volti e i dettagli di oggetti comuni (il libro, il calice, il pallone, i lampioni), di soggetti (i bambini), di animali (i cani) e del paesaggio (il fiume), e sulle immagini che volta per volta dissimulano o rendono espliciti i corpo dei persinaggi. Ed è coadiuvata dalla fotografia di Faraz Fesharaki che privilegia i toni caldi e dal montaggio armonioso curato dallo stesso regista. Mentre Giorgi Koberidze propone un commento musicale che spazia attraverso diversi generi, con una spiccata predilezione per composizioni eseguite con il piano e il violino, e si occupa del sonoro valorizzando molto i rumori naturali. Da sottolineare il ruolo rivelatore del brano musicale ”Un’estate italiana”, composto da Giorgio Moroder in occasione dei Mondiali di calcio -Italia ’90 e cantata da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. 

Analizziamo infine i film vincitori dei premi principali attribuiti dalla Giuria.  

Babardeal? cu bucluc sau porno balamuc (Bad Luck Banging or Loony Porn), nono lungometraggio del romeno Radu Jude, ha ricevuto l’Orso d’Oro quale miglior film. Si tratta di una clamorosa satira sociale che si sviluppa quasi come un film - saggio contro il perbenismo, la sessuofobia e i topoi del falso moralismo, opportunista e reazionario, ben presente, specie tra i nuovi ricchi, nella Romania di oggi. È un’opera che conferma ed esalta la vocazione del quarantatreenne Radu Jude che, a partire dall’esordio come sceneggiatore e regista, nel 2006, ha sviluppato nei suoi film un’analisi critica contundente delle dinamiche sociali, culturali e politiche presenti nel Paese, ponendosi in sintonia con la poetica di altri filmmaker suoi connazionali, della generazione nata tra la metà degli anni ’60 e gli anni ’70.

 

Bad Luck Banging or Loony Porn

"Bad Luck Banging or Loony Porn", Radu Jude 

 

 

Sono autori accomunati da esperienze di vita vissuta, da scelte narrative ed estetiche peculiari e da varie collaborazioni professionali: in primis Corneliu Porumboiu, ma anche Cristian Mungiu, Cristi Puiu, C?lin Peter Netze e altri. Tuttavia la sferzante rappresentazione tragicomica di un campionario antropologico e sociale variamente asservito alla morale e all’ipocrisia dominanti, in un Paese in cui le stimmate, penose e mostruose, del fascismo e del comunismo, nella versione della dittatura ultraventennale di Nicolae Ceau?escu, si fondono con la corruzione endemica e con il rozzo consumismo dilagante, si appesantisce progressivamente. E sfocia in una densità disordinata di immagini pop, sketch, escamotage, citazioni di ogni genere e riferimenti didascalici e in un profluvio logorroico di dichiarazioni e di invettive. La satira si avvita su sé stessa diventando una pochade sgangherata che cerca di essere attrattiva, colorata e creativa, ma risulta asfittica, confusa, “popolaresca”, noiosa e, in fondo, inoffensiva. È evidente che l’incontinenza autoriale soffoca la radicalità drammatica deviandola in una capziosa, raffazzonata e inefficace soluzione mediatoria. La scelta coraggiosa di Jude, per sottolineare l’attualità e l’aderenza alla realtà della storia “paradigmatica” che racconta, è quella di ambientare Bad Luck Banging or Loony Porn durante la pandemia da COVID 19. Infatti la vita quotidiana dei personaggi è segnata dalle note misure di contenimento del virus, uso delle mascherine, distanziamento e limitazioni nella mobilità, che diventano quindi un elemento di verità della messa in scena e che accentuano la portata grottesca degli sviluppi narrativi. Quindi il film, che era già in pre - produzione prima dell’inizio della pandemia e che è stato girato durante l’estate del 2020, è immediatamente ben riconoscibile nella sua dimensione temporale contingente. Dal punto di vista drammaturgico la vicenda, ambientata a Bucarest, si articola con un prologo, tre atti - capitoli e un epilogo. La scena di apertura, che costituisce l’antefatto, è centrale rispetto allo sviluppo successivo: è l’elemento che determina il significato dei capitoli della storia. Propone un breve filmato amatoriale di carattere pornografico, effettuato con la videocamera del pc (molto simile a quelli che si possono vedere online su noti siti a luci rosse). È la registrazione di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna mascherati, con tutti i dettagli espliciti dell’amplesso, i particolari dei corpi e i commenti salaci e molto osé dei due focosi amanti. Per motivi sconosciuti il video, che doveva rimanere privato, diventa virale in internet. Qualcuno, nonostante la bassa qualità delle immagini, riconosce comunque la protagonista: si tratta di Emilia (Katia Pascariu), stimata professoressa di letteratura di un noto liceo di antica tradizione, considerata un modello di comportamento irreprensibile. La donna è in compagnia di suo marito Eugen (Stefan Steel). Nel primo capitolo, intitolato “Strada cu sens unic (Strada a senso unico)”, Emilia, infornata dello scandalo provocato dal video finito in rete e visto da amici, colleghi, studenti e genitori, compie una lunga passeggiata, percorrendo le strade della città. E parla continuamente al telefono. Prima con la preside della scuola che la informa che i genitori dei suoi allievi hanno chiesto un incontro per discutere la questione. Poi, mentre interpella altre persone per trovare il modo di controbattere le accuse di comportamento osceno, qualcuno le rivela il video è nuovamente visibile sul sito Pornohub. La donna cammina a lungo in mezzo al traffico estivo ed è testimone di atti di maleducazione stradale, di stravaganze, di malumore e di aspre liti. E, dopo essere entrata in una farmacia, ascolta le grossolane e astruse disquisizioni sul coronavirus da parte di individui pittoreschi e petulanti. La telecamera la segue continuamente e, con taglio documentaristico, inquadra ampi scorci di un paesaggio urbano disordinato e dominato dal cattivo gusto, in cui si alternano edifici deteriorati e nuovissimi, i simboli kitsch del consumismo arrembante e volgare, gli esempi sfacciati delle differenze di classe e la cartellonistica pubblicitaria invadente che inneggia alla perfezione dei corpi e alle arti marziali. Il secondo capitolo intitolato “Mic dictionar de anedocte, semne si minuni (Dizionario minimo di aneddoti, segni e meraviglie)” propone una carrellata di footage, tra cui immagini di parate militari e di episodi ignominiosi della storia romena dagli anni ’40 del secolo scorso fino al 1989. E inoltre passa in rassegna un lungo elenco di parole simboliche (esercito, amore, razzismo, soldi, nudità, violenza sessuale, matematica, Gesù, storia, indigeni, cinema, ecc.) e di piccoli titoli che introducono notizie e aneddoti sui miti, sui riti e sui tabù della società romena. Queste entità sono illustrate da immagini d’epoca o girate ad hoc e da filmati reperibili online o d’archivio e commentati da una voice over, con un florilegio di citazioni e di frasi di personaggi illustri (Emil Cioran, Paul Celan,Virginia Woolf, Walter Benjamin,Umberto Eco, Pierre Bourdieu, Milan Kundera, Witold Gombrowicz, ecc.). Tra siparietti, note di volgarità e di scelleratezza, sembra che Jude si ricolleghi formalmente al metodo e allo spirito sperimentale, virtuosistico e affabulatorio che sottende il puzzle di materiali visivi e il flusso di immagini e di testi di Le livre d’image (2018), il più recente film saggio di Jean-Luc Godard. Ma, in sostanza, attraverso questa specie di enciclopedia, vuole mostrare, con velata ironia e con marcata indignazione, vari esempi della diffusione di un moralismo deleterio che investe ogni ambito della vita comune e della cultura in Romania e nel mondo e che genera intolleranza e razzismo. Il terzo e ultimo atto intitolato “Practica si apropourile - sitcom (Prassi e situazioni - sitcom)” avviene nel grande patio del liceo dove insegna Emilia. Dovrebbe essere l’incontro chiarificatore richiesto dai genitori degli allievi e organizzato dalla preside (Claudia Ieremia), che lo introduce. Tuttavia diventa da subito una specie di processo in cui la protagonista, seduta dietro una cattedra deve fronteggiare decine di personaggi di varia estrazione professionale e sociale. Viene messa sotto accusa e incolpata per indegnità morale per la faccenda del pornovideo, che molti, dotati di tablet e di smartphone, continuano a riprodurre e a mostrare, sostenendo che quella oscenità avrebbe traumatizzato i loro figli. Emilia risponde argomentando con le tesi della privacy e della libertà individuale: come donna reclama il proprio diritto all’espressione di sé, e come professoressa rivendica il merito di allargare il campo di insegnamento oltre il programma prestabilito a livello ministeriale. I suoi interventi e quelli dei pochi non colpevolisti contengono citazioni più o meno appropriate (da Thomas Kuhn a Hannah Arendt e persino Tacito), con lo scopo di controbattere le rozze motivazioni e l’ignoranza dei genitori che la condannano. Jude mette in scena la versione contemporanea di una disputa di altri tempi, palesando i momenti di vera acrimonia e confidando nella forza della parola. Ma lo scontro di opinioni si inasprisce e si allarga con discissioni su vari remi generali, la pornografia, la liceità dei comportamenti, la funzione docente e i metodi di insegnamento, la letteratura e la politica, e si ascoltano varie affermazioni tipiche della subcultura più retriva. Emerge una sfilza di nuovi “mostri” ottusi, bigotti, egocentrici, biliosi e aggressivi. Sono individui che fanno riferimento a inveterate radici di bieco nazionalismo, ipocrita sciovinismo e grottesco complottismo, e che dimostrano di essere abituati a un uso compulsivo di social media che diffondono fake news. Alcuni, tra cui un ufficiale militare, giungono a formulare affermazioni discriminatorie e di odio contro gli ebrei e contro i rom. Fioccano discorsi astrusi o provocatori e alcuni proferiscono frasi offensive e insulti nei confronti di Emilia. Finché la preside propone una votazione dell’assemblea dei genitori per decidere se mantenere o se revocare Emilia dal ruolo di insegnante, decretandone quindi il licenziamento. Jude sembra voler ripercorrere le orme di Bertolt Brecht impostando, attraverso “il processo” a Emilia, una conclusione improntata a una logica didascalica, ma, come già detto, purtroppo scivola nella farsa che diventa progressivamente sempre più parossistica e inefficace. Nell’epilogo prospetta tre chiavi interpretative del film a cui corrispondono tre concitati diversi esiti della votazione, uno realistico, un secondo auspicabile e un terzo utopistico e molto fantasioso. In ogni caso è un finale che prospetta uno scenario carnevalesco mostrando un tripudio di immagini convulse e di maschere e corpi deformati e grotteschi. È un esito ambiguo, una mediazione che non si capisce se sia più opprimente o maggiormente liberatoria oppure semplicemente burlesca. Radu Jude è indubbiamente un autore che, nei suoi film, cerca costantemente di stabilire una relazione di contatto tra le esigenze narrative e la portata teorica e didattica del racconto. Quindi sviluppa l’analisi radicale del contesto della vicenda trattata, palesandone le implicazioni storiche, sociali e politiche secondo un ricco registro che può essere tragico o farsesco oppure anche una combinazione delle due modalità. E il suo approccio diretto, viscerale e privo di sfumature segnala una precisa volontà di denuncia dei centri di potere istituzionale e politico, delle varie caste e delle gerarchie religiose del suo Paese, che sono accomunati da sclerosi e storture, ipocrisia e corruzione e che si sono resi e si rendono responsabili, nel passato e nel presente, di episodi intollerabili come la collaborazione con il nazismo o la violenta discriminazione verso le minoranze etniche. E mostra anche una propensione a investigare e a rappresentare le contraddizioni patologiche nel vissuto delle persone, conseguenza residuale, ma tuttora largamente presente, di pregiudizi e di abitudini mentali e culturali consolidatisi durante i decenni della dittatura di Ceau?escu in cui dominavano i metodi di controllo poliziesco, di repressione e di corruzione delle coscienze messi in atto da parte dell’apparato statale. Questi presupposti si ritrovano in alcuni dei film più compiuti di Jude. The happiest girl in the world (2009), il lungometraggio di esordio, è una commedia minimalista fresca, spiritosa e amara in cui si mescolano desideri, illusioni, presunzione, compromessi e bugie per apparire moderni e per inseguire le chimere consumistiche. Aferim!, (2015) è un “dark western” balcanico, ambientato in un’epoca cruciale nei possedimenti dell’Impero Ottomano. Un period film corrosivo con sembianze di road movie, caratterizzato da dialoghi ricchissimi e da una triste vis comica. Propone la geniale parabola di un universo feudale regolato da gerarchie feroci e da privilegi intollerabili e segnato da violenze atroci e, al tempo stesso, il ritratto di un popolino dominato da superstizioni e da orribili pregiudizi razziali. E quindi manifesta l’intento di mostrare le radici a livello sociale di una tragica problematica discriminatoria che persiste tutt’oggi. I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians (2018) è un lucido e intenso dramma politico che documenta i latenti pregiudizi antisemiti e razzisti tuttora presenti in Romania. Durante l’allestimento a Bucarest di una rappresentazione teatrale outdoor, che ricostruisce fedelmente il massacro di massa degli ebrei avvenuto a Odessa nel 1941, per ordine del Presidente dittatore Antonescu, alleato di Hitler, si innesca un aspro confronto quando i figuranti romeni rifiutano di lavorare con gli attori rom. E la mediazione melliflua e ipocrita di un funzionario del municipio si rivela come un rozzo tentativo di censura nei confronti della regista della pièce, un’idealista sinceramente impegnata a salvaguardare la verità storica dei fatti. Uppercase Print (2020) è uno straordinario e avvincente dramma da camera che ricostruisce molto creativamente un fatto vero: la vicenda di un liceale sedicenne che nel 1981 fu scoperto essere l’autore di scritte che chiedevano la libertà sui muri di spazi pubblici. Venne sorvegliato dalle autorità e perseguitato fino a provocarne la morte. Jude ha potuto attingere ai documenti originali del caso custoditi negli archivi della polizia segreta. Quindi ha messo insieme footage d’epoca e una rappresentazione teatrale del dramma, incalzante e angosciosa, utilizzando le parole originali dell’informazione falsificata e totalizzante fornita dal regime dittatoriale comunista di Ceau?escu. Bad Luck Banging or Loony Porn è un film programmatico, articolato per tesi, e conferma le peculiarità della poetica e del cinema di Radu Jude. È costellato da citazioni colte, beffarde o provocatorie, e, al tempo stesso, è zeppo di soluzioni narrative ibride, non lineari né convenzionali, e di soluzioni estetiche diverse, con un ricchissimo e debordante collage di immagini. In effetti ogni capitolo denota l’adozione di una forma cinema differente, tra libertà espressiva e noncuranza rispetto a imprecisioni e sovrapposizioni. La messa in scena sperimenta continue variazioni di ritmo, tra accelerazioni e show down, con un uso energico della telecamera e una pluralità di piani e di sequenze ed è ben coadiuvata dal montaggio ardito ed efficace di Catalin Cristutiu e dalla fotografia ricca di tonalità curata da Marius Panduru, fedeli collaboratori di Jude. 

Guzen to sozo (Wheel of Fortune and Fantasy), ottavo lungometraggio scritto e diretto dal giapponese Ryusuke Hamaguchi, ha ottenuto l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria. Si tratta di un vero capolavoro. È un drama - romance intimo ed emozionante, che offre una narrazione del tutto originale, stratificata e raffinata. Ambientato a Tokyo durante la primavera, è articolato in tre episodi che riguardano relazioni sentimentali o amicali o semplicemente interpersonali, in cui giocano un ruolo chiave la casualità degli eventi, gli errori, i malintesi, le oscillazioni tra risolutezza e insicurezze dei propri sentimenti e le simulazioni. Propone con straordinaria intensità tre personaggi femminili e, per ognuno, mostra una circostanza specifica in cui la traiettoria esistenziale si modifica, tra scelte e rimpianti. Il primo episodio, intitolato “Magic (or Something Less Assuring)”, configura un inaspettato triangolo amoroso.

 

Wheel of Fortune and Fantasy

“Wheel of Fortune and Fantasy” di Ryusuke Hamaguchi

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La protagonista è Meiko (Kotone Furukawa), una modella venticinquenne. Al termine di una lunga giornata in cui è stata impegnata in una sessione fotografica open air in un parco, la giovane donna torna in taxi insieme alla trentenne Tsugumi (Yunri), la sua assistente e migliore amica. Quest’ultima non le nasconde i recenti piacevoli sviluppi della propria vita sentimentale. Racconta con trasporto di aver incontrato recentemente un trentenne affascinante, un affermato interior designer, e di aver deciso di uscire con lui perché le sembra che tra loro si sia manifestata una certa empatia. Rivela anche che non hanno fatto sesso in occasione del loro primo incontro perché l’uomo si è trattenuto. Le ha detto che, essendo stato tradito dalla su ex fidanzata due anni prima, vuole verificare se con Tsugumi esiste un vero feeling La chiacchierata si conclude quando l’auto giunge al moderno stabile dove abita Tsugumi e la donna si congeda. È ormai tarda sera: Meiko chiede al taxista di invertire la marcia e raggiunge un palazzo high tech per poi accedere a uno studio ufficio. Ha perfettamente compreso che il nuovo partner dell’amica è il suo ex amante trentenne Kazuaki (Ayumu Nakajima). L’uomo, che si è attardato al lavoro, sembra sorpreso dalla improvvisa comparsa della giovane donna e, in breve, congeda la sua segretaria. Meiko entra subito in argomento, lo informa di essere al corrente della sua nuova liason e gli chiede se è innamorato di Tsugumi. La conversazione tra i due assume toni di recriminazione reciproca: la donna precisa di non amarlo più e di essere preoccupata per la sorte della sua amica, mentre Kazuaki la accusa di essere malvagia e di agire come una stalker. Seguono minacce, accuse, sfide ed estremi tentativi di riconciliazione, finché il rientro inaspettato della segretaria, tornata in ufficio con la scusa di aver dimenticato qualcosa, induce Meiko ad andarsene precipitosamente. Il mattino successivo Meiko è seduta al tavolino di un bar con Tsugumi che le sta raccontando che Kazuaki le ha chiesto un nuovo appuntamento. Proprio in quel momento lo stesso Kazuaki, che casualmente sta camminando davanti alla vetrata del locale, viene riconosciuto da Tsugumi e invitato a raggiungerle. A questo punto Hamaguchi propone due possibili e alternative soluzioni finali, raccordate da un semplice zoom sul volto di Meiko. Nel primo caso Meiko, di fronte all’amica e all’ex amante, rivela senza alcun indugio la sua precedente relazione con quest’ultimo e il loro incontro della sera prima e aggiunge che lo ama ancora incondizionatamente. Tsugumi tace sconvolta, poi si allontana precipitosamente. Kazuaki la insegue. Meiko invece resta seduta e si copre il volto con le mani. Nel secondo caso, subito dopo che Kazuaki è entrato nel bar e si è accomodato con le due donne, Meiko, senza dare spiegazioni, si congeda. Quindi l’uomo rimasto solo con Tsugumi, la propone di trasferirsi altrove. Si notano agevolmente i riferimenti al cinema di Éric Rohmer, quantunque il confronto dei sentimenti appaia più aspro e radicale e indichi qualche similitudine con alcuni film di Krzysztof Kie?lowski. Per altro lo stesso Hamaguchi, invitato a fornire spiegazioni rispetto al doppio finale della storia, ha indicato un riferimento diretto a Cet obscur objet du désir (1977), il notissimo capolavoro di Luis Buñuel, che, a suo giudizio, mostra persone diverse che si rispecchiano, sono contraddittorie, ma anche molto connesse. Il secondo episodio, intitolato “Door Wide Open”, mette in scena una fallimentare manovra di seduzione con conseguenze impreviste. La protagonista è la ventisettenne Nao (Katsuki Mori), una laureata in letteratura a confronto con il cinquantenne Segawa (Kiyohiko Shibukawa), il suo ex professore noto per avere vinto il prestigioso Premio Akutagawa con un suo romanzo. All’inizio della vicenda Nao è sposata con un coetaneo, Sasaki (Shouma Kai): i due convivono in un piccolo appartamento. Sono una coppia in crisi al punto che non smettono di litigare, rinfacciandosi accuse e commenti offensivi. Nel frattempo la televisione trasmette una cerimonia in onore del Prof. Segawa. Nao afferma di ammirarlo. Al contrario Sasaki si mostra molto irritato. Quindi propone alla compagna di aiutarlo a vendicarsi di Segawa perché il professore lo avrebbe umiliato rifiutandosi di accettarlo come allievo e collaboratore perché lo considerava mediocre e svogliato. E minaccia Nao di lasciarla se non mette in atto la vendetta che lui ha pianificato. Quindi la obbliga a un rapporto sessuale controvoglia. Dopo essersi preparata e truccata Nao si reca in facoltà e entra nello studio di Segawa con la scusa di farsi autografare un libro di cui il professore è autore. Gli rammenta che è stata studentessa del corso di letteratura francese tenuto dallo stesso Segawa e gli chiede un’intervista per commentare il libro. Quindi racconta di essere sposata e di volere laurearsi in Psicologia. Il professore è cortese, ma mostra un lieve disagio e, con tranquilla determinazione, provvede a riaprire la porta dello studio, per evitare malintesi o speculazioni. Successivamente, con fredda calma, fornisce una spiegazione rispetto alla strategia narrativa che ha adottato mentre scriveva quel libro ad alto contenuto erotico, ma ammette di poter essere stato eccitato dalle parole che ha scritto. Quindi procede a leggere un passo del libro. Nao rivela di essere una ninfomane e di essere coinvolta in varie relazioni sessuali: è un tentativo di provocarlo per sedurlo o per farsi sedurre. Segawa al contrario le racconta di condurre una vita noiosa e di scrivere storie piccanti e scandalose solamente per attrarre i lettori. Quindi, dopo essersi complimentato con la giovane donna per la sua schiettezza e sicurezza, le rivela di essere intimorito dal tentativo di seduzione. La svolta si ha quando il professore apprende da Nao che lei sta registrando la loro conversazione. A quel punto nasce davvero la tensione erotica. Segawa si mostra indignato, ma al tempo stesso chiede che lei gli invii la registrazione perché trova molto eccitante la sua voce. Nao acconsente, ma solo se lui promette di masturbarsi durante l’ascolto e gli chiede garbatamente se può immaginare quella scena. La donna, che è reduce da un rapporto sessuale insoddisfacente con il marito, prova un erotismo appagante in quanto intellettuale, mediato dalla letteratura e dalla riproduzione di una lettura, e giocato sulla fantasia. Successivamente, tornata a casa, invia per errore e un altro destinatario la mail contenente l’audiofile dell’incontro con Segawa. Si intuisce che successivamente, quando la conversazione con il professore è diventata di dominio pubblico, è nato uno scandalo. Cinque anni dopo Nao incontra per caso su un autobus l’ex marito Sasaki, da cui ha divorziato. L’uomo le racconta che è diventato editore e, venuto a conoscenza che lei lavora come correttrice di bozze, le prospetta una possibile collaborazione in outsourcing. Poi afferma di non avere colpe rispetto allo scandalo e al fatto che Segawa è stato licenziato dall’università. E infine rivela che sta per sposarsi con una collega. Si notano i riferimenti al cinema di Hong Sang-soo, quantunque i contesti culturali e le dinamiche delle relazioni, con le implicazioni sentimentali e sessuali, siano significativamente differenti. Il terzo episodio, intitolato “Once Again”, propone un incontro occasionale che si trasforma in una breve e intima contingenza. La protagonista è la quarantenne Natsuko (Fusako Urabe), ingegnere informatica esperta di sistemi, rimasta disoccupata dopo che un virus ha determinato il collasso delle reti in tutto il mondo e il conseguente ripristino della posta cartacea tradizionale. Un giorno riceve l’invito a partecipare a una “class reunion” dei suoi ex compagni di scuola superiore diplomati nel 1998. Quindi si reca in un albergo dove si svolge la rimpatriata tra persone che, in gran parte, non si incontrano da vent’anni. Ha sperato di incontrare Mika, una compagna con cui ebbe un’intensa relazione amorosa lesbica, ma purtroppo la sua aspettativa è stata delusa. Conversa con alcuni compagni e compagne che l’hanno riconosciuta, ma non le succede nulla di rilevante. Il giorno seguente, mentre si trova sulla scala mobile di una stazione della metropolitana, incrocia una donna che procede in senso contrario. Improvvisamente, forse suggestionata dai ricordi, si convince che si tratti della ex compagna che cercava e che, evidentemente, non aveva potuto partecipare alla riunione. Risale la scala mobile correndo e la raggiunge. Con sorpresa reciproca, le due donne si complimentano a vicenda per il fortunato incontro. Aya (Aoba Kawai) è rallegrata e, senza indugio, invita Natsuko ad visitare la sua abitazione, una villetta che si trova nelle vicinanze. Durante il tragitto informa l’amica ritrovata: è sposata con un ricercatore di una ditta farmaceutica e hanno un figlio di sedici anni. La conversazione diventa intima. Mentre Aya afferma, senza molta convinzione, di pensare di doversi sentire felice, ma dice anche che il tempo la sta lentamente uccidendo, Natsuko confida di non esserlo perché da anni si rammarica di non avere lottato per preservare la relazione con Mika, il primo e unico vero amore della sua vita. A quel punto Aya capisce di essere stata scambiata per la donna che era stata amata da Natsuko. E d’altronde le due donne, fino a quel momento, non si erano ancora rivolte l’una all’altra con il loro nome. Tuttavia, dopo aver chiarito l’equivoco, Aya rivela all’altra donna di essersi sentita coinvolta emotivamente dal loro incontro e di non aver voluto deluderla. Natsuko è attonita e delusa e vorrebbe andarsene, ma Aya la convince a restare. Quindi si raccontano le rispettive vicende personali: entrambe sono state tradite, Natsuko da Mika, e Aya da suo marito, di cui ha scoperto una corrispondenza segreta che le ha fatto conoscere la relazione del coniuge con una sua ex amante. Quindi su proposta di Aya, che chiede di sperimentare una finzione liberatoria, inizia un sottile gioco di seduzione da parte di Natsuko. Ma purtroppo l’arrivo imprevisto del figlio della padrona di casa interrompe la simulazione da cui era scaturito “l’incantesimo”. Alla fine Aya riaccompagna Natsuko alla stazione della metro e le confida che anche lei l’ha scambiata per un’altra, una sua compagna pianista. Poi confessa di essere in preda a una sindrome depressiva ingravescente. Si congedano, ma vi è ancora una piccola e sorprendente variante finale. L’equivoco, lo scambio di persona e l’incrocio - incontro sulla scala mobile, metafora di direzioni opposte che possono diventare parallele, rimandano a vari esempi di film classici americani o europei degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Ry?suke Hamaguchi conferma di poter essere considerato il vero erede del cinema classico giapponese che, tra gli anni ’30 e ’60 del secolo scorso, ha offerto eccellenti e indimenticabili ritratti femminili attraverso i film di maestri quali Mikio Naruse e Kenji Mizoguchi. Come noto questi autori hanno raccontato la sottomissione e il disagio delle donne nella società patriarcale di quell’epoca,caratterizzando personaggi forti e determinati nonostante i maltrattamenti e le incomprensioni riservati loro da uomini indegni e insensibili. Per altro nelle opere di Hamaguchi si notano anche affinità con il cinema contemporaneo dell’ormai sessantenne Kore-eda Hirokazu che scandaglia, con consueta naturalezza, le contraddizioni dei personaggi e sviluppa, senza analisi psicologiche artificiose, un pregevole caleidoscopio di sentimenti, evitando accuratamente il sensazionalismo e la deriva didascalica. Giova citare due eccellenti film precedenti di Hamaguchi. Happî awâ (Happy Hour) (2015), della durata di ben 317’, offre il ritratto dell’amicizia di quattro donne trentenni, puntando a caratterizzare i personaggi attraverso una sottile descrizione delle loro contraddizioni personali e affettive. Il regista documenta, senza essere didattico, il progressivo deterioramento del clima di fiducia reciproca man mano che si trovano a fronteggiare le rispettive crisi familiari. Riesce a dosare humour, amarezza e malinconia, fino all’epilogo, in cui emergono i sentimenti più reconditi per evidenziare l’essenza dei legami al di là delle criticità, con la prospettiva di una realistica apertura alla vita futura. Asako I and II (Netemo Sametemo) (2018), è un brillante e inconsueto antimelodramma romantico: un mosaico di sentimenti e di peculiarità della cultura giapponese. Adatta un romanzo di Tomoka Shibasahi, proponendo una love story contemporanea deliziosamente artificiosa, che ricorda i romanzi di Honoré de Balzac. Il regista racconta l’incontro e la controversa storia d’amore tra Asako, una studentessa dolce e piuttosto naïf, ma imprevedibile, nonostante l’apparente fedeltà alle consuetudini, e Baku, misterioso, affascinante, impulsivo e più o meno anticonformista. E al tempo stesso descrive con acume il gruppo di ventenni piccolo borghesi, amici e conoscenti dei due protagonisti. Sono personaggi che si muovono in un contesto post moderno e che vivono relazioni ondivaghe con consuetudini e pregiudizi che vengono da tradizioni secolari. Hamaguchi palesa uno humour raffinato e affronta senza seriosità i temi dell’innamoramento, dell’entusiasmo, delle incomprensioni, dell’incapacità egoistica di relazionarsi con gli altri e della paura della solitudine. Wheel of Fortune and Fantasy, il cui titolo originale giapponese significa semplicemente “casualità e immaginazione”, è un film che gioca sul relativismo della verità, proprio come è relativa e labile la realtà dei sentimenti umani raccontati. La dimensione temporale è decisiva: le storie si sviluppano nel corso di anni, con salti in avanti o indietro, oppure con un ritorno a eventi e fatti del passato. Vi sono elementi narrativi ricorrenti tra i tre episodi. Possiamo citarne alcuni: il tè, che viene servito nel secondo e nel terzo; la mail, inviata per errore, nel secondo, che anticipa il terzo in cui un virus informatico che determina un invio a caso delle mail; le porte aperte e chiuse, nel secondo e nel terzo, che ricordano di essere esposti agli imprevisti e alle possibilità della vita. La messa in scena, molto accurata, presenta un’estetica raffinata: intelligenti soluzioni illustrative, una sapiente combinazione di piani di ripresa e di inquadrature e la fotografia luminosa di Yukiko Iioka. Ryusuke Hamaguchi elabora dialoghi ricchissimi e di grande complessità come punto nodale di un incontro conflittuale tra la struttura straordinaria delle storie e i personaggi che vengono rappresentati nel modo più realistico possibile. Sono dialoghi che caratterizzano dispute controversie e differenze tra le donne e gli uomini. Accompagnano ed esaltano manipolazioni reciproche, alternanza di dominanza e di sottomissione e scambi di ruoli tra i personaggi, appartenenti alla società urbana contemporanea giapponese. 

 

Mr Bachman end his Class

“Mr. Bachmann and His Class” di Maria Speth

 

Herr Bachmann und seine Klasse (Mr. Bachmann and His Class), quinto film, e seconda opera nonfiction, della tedesca Maria Speth, ha ottenuto l’Orso d’Argento, Premio della Giuria. È un documentario extralarge (217’) ambientato a Stadtallendorf, una cittadina con attività di piccola industria, situata nella regione dell’Assia, nella Germania centro - occidentale. Si tratta di una località con ampia presenza di immigrati, con differenti livelli di integrazione culturale, che vengono seguiti e agevolati da un “centro per l’integrazione e il reinsediamento”. Maria Speth offre il ritratto, composto da diverse esperienze, di un anno di vita scolastica, dall’inverno alla primavera avanzata, di una classe di studenti di età compresa tra dodici e quattordici anni, appartenenti a famiglie di ben dodici diverse etnie. Al centro della vicenda vi è l’anziano Dieter Bachmann, un insegnante di lingua tedesca e di musica, appassionato, competente e paziente, che sta compiendo il suo ultimo anno di attività professionale prima di andare in pensione.

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È un uomo sempre vestito con abiti semplici e casual, costantemente sereno, ma anche molto attivo e disponibile. È stimolante e a volte bonariamente ironico, animato da ideali libertari e memore delle sue esperienze di attivismo nei movimenti sociali di protesta degli anni ’70 e ’80. Di conseguenza è un docente perspicace, aperto a metodi didattici non tradizionali e intelligentemente capace di interessarsi anche del contesto familiare e delle tradizioni dei suoi alunni. In effetti mostra grande attenzione alle problematiche, alle esigenze, alle sensibilità e alle differenze caratteriali dei singoli. Sono tutti figli di immigrati turchi, ucraini, polacchi, italiani, rumeni, bulgari, africani e latinoamericani, arrivati in Germania per cercare lavoro o per fuggire da conflitti, guerre o persecuzioni. L’obiettivo di Bachmann è quello di suscitare la loro curiosità affrontando un ampio range di argomenti, temi e problemi, dall’amore, alla religione e alla musica, leggendo e commentando i giornali e agevolando il confronto di opinioni e il coinvolgimento. E, soprattutto, sfrutta ogni occasione di discussione per incrementare la padronanza della lingua tedesca da parte dei suoi allievi. Inoltre si sforza di far comprendere, con esempi creativi, il significato della cittadinanza, che include diritti e doveri, tolleranza e rispetto reciproco. Gran parte girate delle scene si svolgono nelle aule della scuola, ma si assiste anche a una lezione di applicazioni tecniche con insegnamento della scultura con legno di cedro, alle attività di ricreazione e sportive. Compaiono anche altri insegnanti più giovani, tra cui una professoressa di origine turca che dichiara di non sentirsi del tutto a proprio agio né in Germania, né durante i periodi di soggiorno in Turchia. La visita al museo di Allendorf, poco distante, è l’occasione per narrare gli eventi della Seconda Guerra Mondiale e per spiegare la riconversione, dopo il conflitto, delle fabbriche belliche tedesche in opifici che producono oggetti di uso quotidiano. La canonica gita in campagna offre infine l’opportunità per superare le differenze, tra i più estroversi e i più introversi, quelli che amano essere al centro dell’attenzione e chi preferisce ascoltare, e per stabilire la fiducia reciproca. Mr. Bachmann and His Class ricorda in qualche modo Entre les murs (The Class) (2008), del francese Laurent Cantet. Per altro, nonostante molti aspetti interessanti, tra cui la freschezza dei dialoghi, sinceri e ingenui, delle ragazze e dei ragazzi, che raccontano le proprie storie, i desideri e i timori, una messa in scena ben congegnata e l’eccellente fotografia di Reinhold Vorschneider, non mancano i clichés del politicamente corretto. In sostanza si nota una deriva che depotenzia la regia di Maria Speth: l’evidente sforzo di selezionare ad hoc il materiale filmato, che riguarda una storia reale di integrazione, con l’obiettivo di rappresentare un piccolo “mondo ideale”, che appare un poco artificioso perché quasi privo di vere tensioni e di conflitti.

Természetes fény (Natural Light), opera prima di finzione scritta e diretta dal documentarista quarantenne ungherese Dénes Nagy, ha ricevuto L’Orso d’Argento per la miglior regia. È un racconto bellico ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, all’epoca dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte delle truppe tedesche e dei loro alleati. Si tratta di un dramma tragico di impronta naturalistica, tecnicamente impeccabile e molto rigoroso, lento e segnatamente ritmato, ai limiti dell’estetismo. Offre una declinazione personale dei temi della colpa e dell’omertà, privilegiando l’osservazione fredda e “cerebrale” dei personaggi e del paesaggio e depotenziando le svolte narrative. Dénes Nagy ha adattato una sezione dell’omonimo romanzo, di cui è autore il connazionale Pál Závada, che copre il periodo temporale dal 1930 al 1950 ed è stato pubblicato nel 2014. Dopo l’invasione di una larga parte dell’URSS, tra il 1941 e il 1944 un contingente di 100.000 soldati ungheresi ha partecipato alle operazioni militari dell’armata nazista. La vicenda si svolge durante tre giorni, nell’inverno del 1943.

 

Natural Light

"Natural Light” di Dénes Nagy

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Il caporale István Semetka (Ferenc Szabó), che prima della guerra era un semplice contadino, è inquadrato in un’unità speciale che ha il compito di individuare e uccidere i partigiani russi nascosti nelle foreste e di tenere sotto controllo la popolazione dei territori occupati. Un giorno, dopo aver arrancato nel fango, il plotone raggiunge un piccolo villaggio. I militari ungheresi radunano gli abitanti e perquisiscono le isbe costruite con tronchi e tavole di legno. Non avendo trovato nulla di sospetto si accampano. Si stabiliscono in alcune case e requisiscono cibo e viveri, rimanendo all’erta e mostrandosi incuranti della indifferenza e del tacito disprezzo mostrato dalla popolazione. Non operano alcun atto di violenza nei confronti della popolazione. Il giorno successivo l’unità, seguendo il percorso suggerito dall’anziano capo del villaggio, prosegue il cammino e attraversa la foresta circostante. I soldati incontrano alcuni bracconieri e taglialegna abusivi, ma, nonostante l’evidente tensione, Semetka evita di punire il furto di legname. Tuttavia, poco dopo, cadono in un’imboscata tesa dai partigiani e il comandante dell’unità viene ucciso. Semetka è il graduato più anziano ed è obbligato a sostituirlo, prendendo il comando. Tornato al villaggio, insieme ai compagni superstiti, trova il corpo del capo della comunità. L’uomo è stato ucciso e lasciato in mostra con un cartello appeso al collo su cui è vergata la scritta “traditore”. Semetka raduna tutti i maschie russi e li rinchiude in un grande granaio organizzando la sorveglianza. Nel frattempo giungono rinforzi inviati dalla divisione. Il sergente maggiore Matyas Koleszár (László Bajkó), al comando della nuova colonna ben attrezzata, conosce da tempo Semetka e gli chiede notizie di sua madre. Poi lo invia a perlustrare la vicina palude. Quando il caporale ritorna al villaggio il massacro dei prigionieri inermi è già avvenuto: il granaio è in fiamme. Il mattino seguente è convocato a colloquio con il sergente maggiore Koleszár. L’uomo divaga, gli racconta del suo incontro con un orso, poi gli fa capire che la repressione è stata inevitabile e gli spiega di averlo inviato fuori dal villaggio per evitargli di partecipare al massacro. Poi gli ordina di tornare alla base operativa della divisione scortando una squadra incaricata del trasporto dei feriti all’ospedale. Semelka lo ascolta con il volto immobile e un’espressione indecifrabile e non interloquisce. Dopo aver compiuto gli ordini si reca a rapporto. Racconta all’ufficiale che lo ha ricevuto cosa è successo durante la missione al villaggio, ma omette di menzionare il massacro dei prigionieri. Inviato in licenza per due settimane, torna in Ungheria in treno. Dénes Nagy mostra di conoscere e di apprezzare la poetica e l’estetica di Andrei Tarkovsky e di Sharunas Bartas, autori che nei loro film hanno sminuito la portata delle svolte narrative e sostanzialmente abolito il climax e, al contrario, hanno privilegiato la problematicità esistenziale dei personaggi e la relazione con la natura selvaggia e / o incontaminata. La scelta di Nagy di utilizzare in Natural Light esclusivamente attori non professionali è deliberata: non vuole che si impegnano nell’inter pretazione dei sentimenti correlati alle situazioni della vicenda a scapito della loro naturale espressività. Quindi la caratterizzazione dei personaggi non avviene attraverso l’introspezione psicologica o attraverso le parole dei dialoghi che, in effetti sono ridotti all’osso, ma piuttosto valorizzandone i tratti somatici. Gli interpreti dei contadini russi hanno volti che ricordano quelli dei quadri di Brueghel, mentre Semetka mostra costantemente un’aria stanca, impassibile o stoica. Le espressioni facciali, spesso inquadrate in primo piano, diventano la principale modalità attraverso cui Nagy vuole restituire il clima insopportabile di continuo pericolo, e le sensazioni conseguenti agli atti di violenza o agli episodi di orrore. Questi eventi sono segnalati nella loro imminenza o risultano chiaramente prevedibili in ragione di segnali precedenti, ma non sono quasi mai mostrati con immagini esplicite, perché avvengono fuori campo o sono solo evocati. Il paesaggio maestoso, ma anche aspro delle foreste della Lettonia (dove è stato girato il film), in cui prevalgono i colori verde scuro e marrone, concorre allo scenario cupo della guerra. Anche la fotografia, curata da Tamás Dobos, accuratamente composta e immersa in una luce snervante, perché uniformemente diffusa, così come gli gli effetti visivi creati da Chadi Abo e il notevole sound design impressionistico di Jocelyn Robert comunicano un senso di immobilità e di intrappolamento. Tutti gli elementi della messa in scena sembrano funzionali a sottolineare la tragedia e il senso di colpa, anche per azioni di cui non si è direttamente responsabili, che porta Semetka ad adattarsi e / o a essere impotente, ma, purtroppo, spengono l’emozione dello spettatore.  

Introduction

“Introduction” di Hong Sang-soo

 

Inteurodeoksyeon (Introduction), venticinquesimo lungometraggio scritto e diretto dal veterano coreano Hong Sang-soo, ha ottenuto l’Orso d’ Argento per la miglior sceneggiatura. Propone un romanzo di formazione ambientato tra Seoul e Berlino. È articolato in tre capitoli temporali, un trittico di episodi indipendenti, intitolati semplicemente 1, 2 e 3, che non hanno una vera e propria consequenzialità narrativa. I classici temi del cinema di Hong Sang-soo, il rapporto tra i sessi e quello tra il cinema e la vita, vi sono declinati in chiave giovanile. Si tratta quindi di un’opera che racconta la nascita di sentimenti d’amore per un’altra persona e per l’arte. Young-ho (Seok-ho Shin) è un giovane appena ventenne di famiglia agiata, figlio di genitori separati. Suo padre (Young-ho Kim) è un medico cinquantenne che esercita con profitto la libera professione e che pratica anche l’agopuntura. Professa la religione cristiana, ma non è sereno: sembra tormentato da problemi, che restano imprecisati. Sua madre (Yun-hee Cho) donna piacente e di mondo, è verosimilmente legata al mondo dello spettacolo.

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Il primo atto si svolge a Seoul durante una giornata invernale. Young-ho viene convocato nello studio del padre. Invitato ad attendere, perché il padre comunica di essere temporaneamente impegnato con i propri pazienti, il giovane rimane nella sala d’aspetto e nota un famoso attore di teatro e di cinema sessantenne (Ki Joo-Bong, spesso alter ego dello stesso Hong Sang-soo nei suoi film), amico e cliente del genitore. Casualmente quest’ultimo gli rivolge un complimento gentile. Il secondo atto si svolge a Berlino sempre in inverno. Ju-won (Mi-so Park), la giovane fidanzata di Young-ho, è ospite di un’amica di sua madre (Young-hwa Seo), una pittrice quarantenne, divorziata e molto attraente (Kim Min-hee, talentuosa musa di Hong Sang-soo, a cui è legata da una controversa relazione sentimentale) che abita in un grazioso appartamento di un vecchio condominio degli anni ’50 in un quartiere residenziale. La madre della giovane è venuta a visitarla e le tre donne chiacchierano amabilmente e passeggiano sulla riva di un canale. All’improvviso Ju-won riceve una telefonata e apprende che Young-ho è arrivato in città per farle una sorpresa. La madre di Ju-won dichiara la propria contrarietà di fronte all’impulsività dei giovani. In ogni caso i due giovani si accordano per incontrarsi e vanno a cena in un ristorante. Young-ho si giustifica dicendo che la scelta repentina di raggiungerla deriva da fatto che non sopporta la loro separazione, quantunque sia temporanea. Ju-won gli comunica che avrebbe deciso di trasferirsi a Berlino per studiare moda, ma è in attesa di conoscere il parere dei suoi genitori. Young-ho critica aspramente suo padre in quanto, pur essendo un uomo facoltoso, si dimostra avaro ed egoista. Quindi comunica alla fidanzata il suo progetto: vorrebbe studiare recitazione e restare a Berlino con lei. Ju-won è elettrizzata rispetto a quella prospettiva e lo abbraccia con affetto. Il terzo atto è ambientato nuovamente in Sud Corea. Qualche tempo dopo, in primavera, Young-ho va a pranzo con la madre in una località di villeggiatura sulla costa, non lontano da Seoul. La donna vuole presentarlo a un a un amico attore, che risulta essere lo stesso che il giovane aveva incontrato nello studio del padre. Young-ho è accompagnato da Jeong-soo (Seong-guk Ha), un suo amico. Young-ho è accompagnato dal suo amico Jeong-soo (Seong-guk Ha). La donna racconta all’attore che il figlio ha intrapreso gli studi di recitazione perché lo ammira molto fin dall’infanzia e poi che lo aveva incontrato nello studio di suo padre. L’amico non ricorda l’episodio. Durante il pranzo Young-ho, che non nasconde il fatto di essere timido e sensibile, afferma che, nonostante la passione per la recitazione, ha deciso di abbandonare gli studi, rinunciando quindi alla carriera professionale di attore. In seguito all’insistenza della madre, dopo aver superato la ritrosia, spiega di sentirsi frenato da dubbi di carattere morale. Racconta l’episodio decisivo che lo ha messo in crisi: non ha avuto il coraggio di baciare un’attrice sul set di un film a cui era stato invitato a partecipare. Ha ritenuto sbagliato, perché privo di senso, il fatto di dare un bacio a un’attrice seguendo le esigenze della finzione. E soprattutto si è sentito frenato perché pensava alla sua fidanzata e gli sembrava di tradirla. Per altro afferma che la fidanzata gli ha riferito che non avrebbe avuto problemi in merito, ma lui stesso non è convinto che sia sincera. Mentre la madre di Young-ho dichiara di essere molto delusa e arrabbiata, il famoso attore interviene spiegando il rapporto tra la vita e il cinema e tra l’attore e il suo personaggio. Ma aggiunge anche con tono accalorato, essendo già inebriato dalle abbondanti libagioni con il soju, che prova ammirazione per l’amore che intercorre tra Young-ho e Ju-won. Secondo lui quando un uomo abbraccia una donna è sempre qualcosa di meraviglioso, non può esserci simulazione. Dopo pranzo Young-ho e l’amico Jeong-soo si recano sulla spiaggia per chiacchierare e fumare. Salgono in auto e si addormentano. Un sogno rappresenta l’ironico commento alla vita sentimentale e ai rovelli di Young-ho. Nell’intermezzo onirico, che pure pare molto reale, incontra Ju-won che si dice pentita di averlo lasciato. In effetti dopo la separazione si è sposata con un tedesco che poi comunque, a sua volta, l’ha lasciata perché ha intrapreso una nuova relazione con un’altra donna, anch’essa coreana. Potrebbe essere una sublimazione della delusione d’amore che Young-ho deve aver sperimentato nella vita reale, beffardo contrappasso per un giovane uomo che non avrebbe traditola donna di cui era innamorato neanche nella finzione. Quindi, dopo un paio d’ore il giovane protagonista si risveglia e si immerge brevemente in mare, affrontando il freddo, mentre Jeong-soo lo osserva. I film di Hong Sang-soo, tutti diversi l’uno dall’altro, nonostante le molte similarità, le relazioni che li legano tra loro e l’evidente matrice autobiografica che li nutre (i personaggi sono spesso studenti delle scuole di cinema e registi), offrono un approccio ironico, a tratti perfino sardonico, e amaro, ma comprensivo, nei confronti dell’irrazionalità dei sentimenti nella Sud Corea di oggi. Propongono abitualmente diverse varianti di drammi esistenziali individuali e di gruppo, con la centralità di una figura femminile e il disagio degli uomini attorno a lei che tentano invano di manipolarla. La dialettica amorosa, sempre presente nelle storie raccontate, si dipana attraverso incontri, solitudini parallele, doppi e simmetrie, generati dalla disgregazione di affetti e di amori che segna ognuno dei personaggi. E si regge su giochi di incomprensioni, piccole bugie e candide aspettative, che spesso non si realizzano o deludono, conditi da dialoghi brillanti e da situazioni teatrali. È un cinema sempre molto personale, caratterizzato da architetture narrative non semplici, ma accuratamente disposte e sottilmente emozionanti, anche se si presentano fatti apparentemente casuali prodotti da circostanze accidentali, episodi imbarazzanti e piccoli equivoci. È fondato sulla parola, e quindi sulle conversazioni tra pochi personaggi che interagiscono tra loro, ed è nutrito da uno humour fresco e, a volte, sarcastico o amaro, e da un classico stile naturalista. Riecheggia il cinema francese della post Nouvelle Vague, con riferimenti a Rohmer, Rivette, Resnais e Lelouch, e anche quello di Woody Allen, ma è saldamente ancorato a tipologie umane e a contingenze specificamente coreane. I film di Hong Sang-soo presentano una descrizione divertita e mordace di personaggi fragili, indecisi e moralmente e intellettualmente contraddittori. Offrono deliziosi spunti tragicomici, attraverso l’osservazione dei comportamenti e la presentazione di strani incidenti. Il flusso drammatico mostra la divaricazione emotiva e comportamentale tra uomini e donne. È affidato alle cadenze lente dei personaggi, che si trovano a fare i conti con l’immaturità dei loro sentimenti, e ai loro dialoghi buffi e ingenui o pieni di divagazioni intellettuali. Relazioni complicate, rapporti che non decollano o che finiscono, infedeltà e incomprensioni attraversano, insieme a nuovi temi introdotti volta per volta, i film più riusciti, realizzati nel corso degli ultimi anni: il pessimistico Woman on the Beach (2006), che evidenzia il relativismo della vita e la fragilità dei rapporti di coppia; il brillante e intelligente Oki’s Movie (2010), centrato sulla sostanziale incapacità a comunicare lealmente i propri sentimenti; il graffiante e soffocante Ha ha ha (2010), in cui pare che la realtà si vendichi di fronte alle omissioni e alle bugie ipocrite dei protagonisti; l’irrisolto The Day He Arrives (2011), che oscilla tra casualità e causalità, fatalità e determinismo; il brillante, romantico e surreale Our Sunhi (2013); il bellissimo e delicato Hill of Freedom (2014), basato sui temi della verità, del tempo e della memoria; il ricercato, intrigante e ricco di sottigliezze retoriche Right Now, Wrong Then (2015); l’ossessivo e misterioso On the Beach at Night Alone (2017; l’umoristico The Day After (2017), con al centro le menzogne e le aspettative deluse; il raffinato e malinconico Grass (2018), che orchestra un minuetto di coppie di personaggi anonimi; il malinconico, consapevole, ma anche ilare Gangbyun Hotel (2018), che articola una dialettica più alta e decisiva, quella tra la vita e la morte, in un percorso narrativo che tocca la contemplazione della bellezza e della natura, la poesia e il sentimento dell’esaurimento e della perdita; il delizioso The Woman Who Ran (2020) in cui la protagonista è una donna sicura di sé, cosciente delle proprie qualità, enigmatica e per nulla preoccupata rispetto alle sorti del proprio partner maschile. In queste opere, molte delle quali realizzate in un prezioso bianco e nero, la narrazione procede attraverso interessanti flashback, secondo uno stile visivo volutamente non descrittivo. La messa in scena è scarna, ma anche sofisticata, con una composizione accurata delle immagini data da una combinazione magistrale di inquadrature fisse prolungate, a varia distanza e simmetriche, zoom e close up, alternati a piani-sequenza, tipiche panoramiche a schiaffo e assestamenti visivi continui. Introduction conferma pienamente la raffinata scrittura, la poetica e lo stile di regia di Hong Sang-soo. Dopo aver a lungo rappresentato la problematicità delle relazioni amorose tra uomini e donne offrendo, con toni autoironici, anche molti rifermenti autobiografici, il regista trasferisce le tematiche che gli sono più care al mondo delle nuove generazioni. Propone un’opera che è un’introduzione alla vita e al cinema, o anche che parla del cinema che non è separato dalla vita o ancora che racconta dell’amore che nasce e che si sviluppa problematicamente e della sua rappresentazione in un film. Hong Sang-soo sembra teorizzare e mostrare la sostanziale equivalenza delle due entità. Risulta efficace, ma meno intenso e più fragile rispetto ai precedenti film. Il protagonista è un giovane uomo, che tenta di conoscere la vita e di trovare la sua strada nel mondo, indipendentemente dai desideri e dalle imposizioni dei suoi genitori. La narrazione sviluppa problematiche che in parte restano aperte, lasciando allo spettatore la possibilità di collegare elementi diversi, che non sempre si connettono, e procede attraverso rivelazioni improvvise. Come accade abitualmente nel cinema di Hong Sang-soo, vi sono molti fattori ricorrenti, simmetrie e specularità interne ai tre atti e affinità con altri suoi film. Anche quest’ultimo è stato girato in un bianco e nero terso ed efficace che esalta l’eccellente fotografia curata dallo stesso regista.

Una película de policías (A Cop Movie), terzo lungometraggio del quarantaduenne messicano Alonso Ruizpalacios ha ottenuto l’Orso d’Argento per uno straordinario contributo artistico, specificamente per il montaggio curato da Yibrán Asuad. Il film sarà distribuito online da Netflix. Si tratta di un convincente e avvincente docu - drama che racconta le esperienze dei poliziotti di pattuglia nei quartieri popolari della megalopoli Ciudad de México. Occorre ricordare che in Messico la polizia federale è una delle istituzioni più controverse in quanto rappresenta un presidio centrale nella società per il mantenimento dell’ordine pubblico e l’ausilio dei cittadini, ma presenta anche gravi disfunzioni, come corruzione e pratiche illegali, per cui è spesso messa in discussione da settori della popolazione e dai media.

 

A Cop Movie

"A Cop Movie” di Alonso Ruizpalacios

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Il film è suddiviso in cinque capitoli, ognuno dei quali intreccia le problematiche professionali e della vita personale di agenti di polizia coinvolti in uno speciale esperimento di definizione di sé stessi, tra finzione e realtà. La trentaquattrenne Teresa (Mónica Del Carmen), con diciassette anni di servizio, e Montoya (Raúl Briones), suo compagno e collega, sono una coppia nella vita e nel lavoro. La scelta di arruolarsi nelle forze di polizia è derivata per entrambi da una tradizione familiare: il padre di lei e il fratello di lui sono anch’essi poliziotti. Alonso Ruizpalacios rende intrigante la metanarrazione del film, entrando subito nel vivo del quotidiano duro impegno vissuto sul campo e concentrandosi in particolare su Teresa. Nel primo e nel secondo episodio la donna viene seguita passo passo in due missioni notturne, con ampio uso di soggettive e suoi commenti in voice over. In un primo caso risponde a un appello urgente e si ritrova in un barrio di periferia con strade stranamente deserte. Scende dall’auto e avanza con circospezione perché teme che si tratti di un’imboscata, ma, dopo essere entrata nella casa in cui era attesa, capisce che deve soccorrere una giovane donna spaventata e sofferente perché è entrata nella fase conclusiva del travaglio. Alla fine riesce a partorire, aiutata in qualche modo dalla stessa Teresa, prima ancora che giunga l’autoambulanza con il soccorso medico richiesto. Il secondo caso è altamente drammatico. Teresa è di pattuglia con due colleghi. I poliziotti arrestano la loro auto dietro un’altro veicolo parcheggiato in una via polverosa e poco illuminata. Quando uno degli agenti si avvicina per effettuare il controllo di identità del guidatore, e unico occupante dell’auto sospetta, quest’ultimo gli spara a bruciapelo e fugge precipitosamente. I colleghi sono costretti a trasportare d’urgenza il ferito grave in ospedale. Teresa lamenta che in entrambi i casi si è trovata a dover compiere atti non previsti dai protocolli e che si sono evidenziati problemi di organizzazione e di protezione degli agenti. Quindi il film assume un carattere più intimo. Teresa racconta la propria storia, essendo davvero credibile nel ragionare e nel confessarsi rispetto ad aspettative, contraddizioni, relazioni familiari e problemi professionali. Ricorda le difficoltà del training che ha dovuto svolgere dopo essere stata assunta e rivela, senza enfasi, l’orgoglio per la divisa, il senso del dovere e il cameratismo con i colleghi. Quindi, insieme al suo compagno, parlano delle famiglie e del loro rapporto: si confessano guardando spesso direttamente in macchina. Teresa spiega che suo padre, un poliziotto all’antica, forse spinto da un pregiudizio machista, ha cercato di scoraggiarla nella scelta di arruolarsi, salvo poi inviarle una lettera in cui l’ha elogiata. Montoya racconta che lui e il fratello maggiore, hanno indossato la divisa perché sono stati spinti da una vaga idea di poter essere strumento per affermare la giustizia. Quindi raccontano come si sono incontrati e ben presto innamorati, dopo che entrambi erano usciti dal fallimento di precedenti relazioni. Altri poliziotti, con cui i due si incontrano, lamentano le difficoltà per ottenere il riconoscimento per il lavoro che svolgono da parte dei cittadini e la mancata partecipazione sociale quando avviene la morte di un agente durante il servizio. Quindi il focus si sposta su un caso emblematico. Teresa e Montoya incontrano una teenager che riferisce di essere stata violentata. Ma, successivamente, la vittima dichiara anche che sua madre l’avrebbe venduta a un clan di donne che l’hanno costretta a prostituirsi. La rivelazione, spiazzante e suggestiva, avviene solo nell’epilogo: Teresa e Montoya sono una coppia di attori professionali che hanno interpretato un copione, vivendo un’esperienza di “infiltrati” tra i poliziotti e di autocoscienza simulata, ma veridica. Nelle battute finali viene svelata la preparazione del film e il lavoro produttivo nelle strade della città. Mónica Del Carmen, indossata la divisa, intervista veri poliziotti per apprendere fatti e problematiche del loro lavoro, compaiono i due agenti che si chiamano davvero Teresa e Montoya. Le prove di recitazione dei due attori si intrecciano e si confondono con le scene reali del training professionali dei poliziotti, in una sovrapposizione davvero efficace. Alonso Ruizpalacios è uno tra i più interessanti filmmaker messicani dell’ultima generazione, che si pine a metà strada tra autorialità in fieri e onesto cinema rivolto al grande pubblico. Finora ha dimostrato una vocazione per il genere della commedia, nella variazione della dramedy in versione road movie. Nei suoi due lungometraggi precedenti ha proposto vivaci ritratti, ancorché non privi di cliché, di adolescenti e ventenni, studenti mediocri o falliti, appartenenti alla classe media, catturandone la vis anarchica, goliardica, velleitaria e facilona, tra bonario cinismo e deriva patetica. Güeros (2014), l’opera di esordio, è una effervescente commedia minimalistica ambientata nel 1999, durante la stagione delle massicce proteste studentesche conto il governo. È un accattivante coming-of-age film e, in qualche modo, anche un atipico road movie in cui un quindicenne e il fratello maggiore e un suo amico, studenti universitari fannulloni, viaggiano a vuoto, nelle strade e nei quartieri degli sterminati sobborghi della metropoli Ciudad de México. Sono protagonisti di una sequela di avventure e di incontri con i personaggi più astrusi, tra sketch e scene semi improvvisate più o meno riuscite. Anche Museo (2018) è una commedia drammatica: una parodia del genere del caper movie ovvero del "film del colpo grosso". Ispirato da un fatto vero, avvenuto nel 1985, racconta, con toni da pochade, l’audace colpo messo a segno da due studenti universitari fuori corso da anni, rampolli di una borghesia in crisi di valori e di mezzi. I due amici attuano un piano rocambolesco, ma in fondo il loro è un atto di sfida e di ribellione alla frustrazione opprimente della routine familiare e sociale. Riescono a introdursi nel famoso Museo Nazionale di Antropologia di Ciudad de México e a rubare preziosi reperti e gioielli dell’epoca delle civiltà mesoamericane Maya, Mixtecha e Zapotecha. Poi fuggono sulla costa del Pacifico. Ma, ben presto, entrano in crisi, tra impossibilità di vendere i reperti e grottesco pentimento. A Cop Movie è invece un’opera più intelligente e matura. È un meta-docu-fiction in cui si mescolano scene d’azione del genere poliziesco e scene da documentario reportage sul campo riguardante le forze dell’ordine di Ciudad de México. Si tratta quindi di un audace esperimento, full immersion, di interpretazione di un ruolo, giocato al confine tra finzione e realtà. La dialettica narrativa si sviluppa a più livelli, tra la vita privata, gli inaspettati compiti di servizio, i rischi di aggressioni violente, la piccola corruzione, la violenza sessuale sulle donne e la disgregazione sociale. La messa in scena denota uno sforzo rilevante, dalle scene d’azione in cui le riprese in soggettiva attraverso il parabrezza dell’auto di servizio risultano molto efficaci alle scene delle interviste e delle confessioni personali in cui prevalgono intensi primi piani e close up. Il montaggio curato da Yibrán Asuad concorre con successo a risolvere la connessione tra le varie e diverse soluzioni narrative. E la variegata colonna sonora curata dall’argentino Lalo Schiffrin arricchisce l’impatto del flusso delle immagini.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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